C’è stato un tempo in cui il valore di un’azienda si misurava prestando un’estrema attenzione alle immobilizzazioni materiali come indicatore della capacità della stessa di generare redditi futuri.
Terreni, capannoni, impianti e macchinari costituivano infatti elementi fondamentali per la determinazione del valore dell’azienda, essendo gli asset principali in grado di assicurarne il successo competitivo in termini di produttività, innovazione, riduzione degli sprechi.
Oggi questo non è più così vero. Negli ultimi anni, infatti, il peso preponderante si è spostato dagli asset materiali a quelli intangibili, che includono la proprietà intellettuale, la fedeltà dei clienti, la reputazione del brand, il valore del marchio, il know-how dei dipendenti.
Diverse stime collocano ormai tra il 75% e il 90% la componente ascrivibile a questi asset nel valore aziendale delle quotate statunitensi. Si dirà: tra le quotate americane vi sono tutte le “Giant Tech” (Google, Amazon, Facebook, Apple, Oracle, Microsoft ecc…), ovvero proprio la tipologia di azienda più densa di asset intangibili. Ciò è certamente vero, ma la tendenza si riscontra con proporzioni simili anche su listini diversi da quello americano.
Il tema è particolarmente interessante, perché presenta implicazioni attuali e future con un impatto in grado di stravolgere molte dinamiche dell’economia e della società nel suo complesso. Innanzitutto va rilevato che attribuire un “valore attuale” a un bene fisico è molto più semplice rispetto alla stessa attribuzione per un bene immateriale.
Per capirsi la valutazione di un capannone può essere fatta con diverse modalità, da quella comparativa a quella a valore di ricostruzione, ovvero vi sono metodologie riconosciute per effettuare stime accurate, oggettive e soprattutto condivise dal mercato. Valutare invece il know-how (esperienza, genialità, competenze) della forza lavoro di un’azienda appare esercizio di gran lunga più aleatorio.
Al di là dell’aspetto prettamente tecnico, è però intellettualmente stimolante immaginare la portata di questa trasformazione su alcune dinamiche sociali, di cui la stessa può essere una vera e propria “croce e delizia”.
È ad esempio confortante, in termini di incentivo all’imprenditorialità, pensare che un’impresa possa raggiungere un elevato valore prescindendo dalla necessità di investire ingenti capitali in beni fisici, tipicamente “capital intensive”, perché questo farà apparire più democratico (e quindi più perseguibile) il percorso imprenditoriale a molti giovani, indipendentemente dalle loro condizioni patrimoniali di partenza.
A questo proposito basti pensare a youtuber e influencer vari, che generano il loro reddito esclusivamente in base alla propria base “clienti” (i follower) e alla propria capacità di coinvolgerla e mantenerla ingaggiata attraverso la creazione di contenuti di interesse.
Tuttavia è immaginabile che lo spostamento verso la knowledge economy (dove la conoscenza è fattore più determinante nell’innovazione e nel successo aziendale rispetto ai fattori di produzione “fisici”) esaspererà ancora di più la polarizzazione tra i lavoratori qualificati, che saranno sempre più ricercati, pagati e incentivati a rimanere, e quelli meno qualificati che invece saranno percepiti come ancor più sostituibili e quindi condannati a salari iper compressi.
Va poi osservato che se lo spostamento di valore dagli asset materiali a quelli intangibili può costituire una buona notizia per gli aspiranti imprenditori lo stesso non si può certo dire per chi deve valutare la solidità e la sostenibilità di questi asset, sia che tratti di clienti che di investitori.
Tornando all’esempio degli influencer, infatti, è estremamente difficile per le aziende che intendono avvalersi del servizio di costoro comprendere il valore dell’asset che l’influencer esibisce come motivo per cui deve essere più o meno pagato (ovvero la base follower), poiché tale base può essere gonfiata artificialmente o può essere completamente disallineata rispetto alle aspettative dell’azienda cliente che intende investire in pubblicità (si pensi ad esempio al caso di un’influencer donna che annovera tra i propri follower soprattutto uomini ma è chiamata a fare pubblicità ad un’azienda di abbigliamento femminile).
Sarebbe infatti interessante misurare la fluttuazione di valore dell’asset (base follower) se ad ognuno di questi ultimi venisse attribuito un costo marginale (ad esempio se Instagram chiedesse un pagamento anche molto piccolo come 10 cent per ogni soggetto seguito sarebbe interessante notare come l’inevitabile meccanismo di selezione andrebbe a muovere la riduzione di ogni base follower).
Se attribuire un valore a questi asset appare difficile per i clienti risulta poi una missione quasi impossibile per analisti ed investitori. Un asset materiale, ad esempio, gode di un’obsolescenza più pronosticabile (con la relativa gestione dei CapEx e dei conseguenti ammortamenti) o di una probabilità di evento distruttivo quantificabile (gestione delle coperture assicurative).
È invece immaginabile assicurare la propria reputazione contro attacchi condotti su social media a seguito magari di un singolo episodio, reso pubblico, in cui un dipendente è stato scortese con un cliente? E se questo fosse il caso significa che stiamo andando verso un mercato che offrirà soluzioni assicurative per la perdita di reputazione, così come le offriva per l’incendio di un capannone?
Infine va considerato che già valutare un asset intangibile nel presente è estremamente complicato (quanto vale la reputazione o il know-how o la fedeltà dei consumatori di un’azienda che produce cibo pronto?) ma valutarlo prospetticamente è di fatto irrealizzabile, soprattutto alla luce dell’inevitabile scarsità di informazioni a disposizione di coloro che sono fuori dai confini aziendali.
Siamo infatti nell’era dei dati, che garantendo la capacità di affinare la propria offerta produttiva, di targettizzare al meglio la propria base clienti, di ridurre le inefficienze di magazzino, rappresentano un asset ormai cruciale per le aziende. Come si può valutare dall’esterno se l’azienda dispone di quantità sufficienti di dati relativi ai propri clienti o al comportamento after market dei propri prodotti? E cosa dire se si volesse sofisticare ancor di più la valutazione passando dall’esame della quantità di dati disponibili all’esame della qualità degli stessi?
Inoltre tutti i trend dimostrano che il mondo si sia ormai avviato verso un mercato del lavoro iper fluido, dove i lavoratori sono destinati a cambiare mestiere (oltre che datore di lavoro) molte volte nel corso di una carriera. Alla luce di ciò come è possibile ipotizzare le traiettorie di valore di un’azienda che basa gran parte della propria capacità di generare reddito sulle competenze e sulla genialità delle proprie risorse umane? È ipotizzabile che la quota di dipendenti coperti da patti di non concorrenza e/o vincoli di stabilità sia fattore determinante per la valutazione del valore prospettivo dell’azienda stessa?
Esistono settori dove queste dinamiche sono presenti da sempre (si pensi all’industry della consulenza strategia dove il valore è tutto nel capitale intellettuale dei dipendenti, o del private banking, dove il valore è tutto concentrato nella relazione dei banker con i clienti) ed infatti sono settori dove la competizione per strappare forza lavoro ai dipendenti è feroce.
Significa che dovremo aspettarci dinamiche simili in tutti i settori? E ancora, se gli aspetti squisitamente fisico-produttivi (ovvero quelli più vincolanti) rappresentano asset sempre meno cruciali è immaginabile un’accelerazione decisa nelle ascese e cadute delle imprese rispetto ai concorrenti (si pensi a quanto successo a Nokia ed Apple tra il gennaio 2007 e il gennaio 2011)?
E come si inseriranno le nuove tecnologie, quali ad esempio le neuroscienze o l’intelligenza artificiale all’interno di queste dinamiche? Predirlo è molto difficile, osservarlo è inquietante ed affascinante allo stesso tempo.