Nel 1854 Louis Pasteur è un giovane di 32 anni che da poco ottenuto il rettorato di scienze all’università di Lille. Ha un sogno: che la sua amata Francia possa godere di una reputazione almeno pari a quella dei vicini tedeschi. Per questo uno tra i primi argomenti verso i quali decide di dedicare le proprie attenzioni è la birra, la sua fermentazione e i problemi a essa legati. Ed è lui, il primo a dimostrare che la fermentazione è il risultato visibile del lavoro di cellule invisibili di un organismo, il lievito, che trasforma gli zuccheri in alcol e anidride carbonica. Ma non solo, un paio di anni dopo, su stimolo di un distillatore che aveva problemi con la fermentazione del succo di barbabietola Pasteur scoprì che oltre al lievito, anche i batteri lattici erano in grado di trasformare gli zuccheri in alcol, lasciando però come sottoprodotto acido lattico e quindi una sensazione aspra e poco desiderabile. Non si sa, in realtà, se questa vicenda sia davvero avvenuta o sia frutto della fantasia di qualche biografo. È invece sicuro, che Pasteur in quegli anni scoprì che per evitare che birra e vino potessero diventare acidi in seguito a contaminazioni batteriche era sufficiente scaldarli a 50-60 °C per breve tempo. La pastorizzazione, ancora oggi applicata a moltissimi prodotti, era stata inventata.
Sebbene allo scienziato francese venga comunemente attribuita la scoperta del lievito è ormai noto che almeno da tre secoli i birrai avevano intuito che nel ribollire del mosto di birra – fermentazione viene dal latino fervere che significa appunto bollire – c’entravano la schiuma che si formava in superficie durante la fermentazione e la poltiglia fangosa che si depositava al fondo dei tini alla fine del processo: i birrai fiamminghi, per esempio, già nel 1300 avevano sviluppato una tecnica che prevedeva di prelevare parte della schiuma, unirla a mosto di birra fresco e dopo qualche giorno far partire una nuova fermentazione. L’origine della schiuma era sconosciuta ed era talvolta considerata un dono divino, come in Inghilterra dove nel diciassettesimo secolo i birrai la chiamavano la godisgood , Dioèbuono.

Oggi sappiamo che i lieviti sono dappertutto, sulla buccia della frutta, sulle nostre mani o, più semplicemente, nell’aria. Basta lasciare il mosto di birra per qualche tempo esposto all’ambiente esterno perché si contamini di microrganismi in grado di farlo fermentare. E ancora oggi è questo il metodo utilizzato in una piccola area del Belgio, il Pajottenland, per produrre lambic e gueuze, birre a fermentazione spontanea di straordinario valore. Prodotti che sono stati al centro del Toer de Gueuze, un evento simile alle cantine aperte, che si è svolto durante il week end appena passato, per la prima volta solo on line.
Il mondo della birra, a seconda della fermentazione, è organizzato in tre grandi famiglie: le birre ad alta fermentazione, quelle a bassa e, infine, quelle a fermentazione spontanea. A fare la differenza è la tipologia di microrganismi che concorrono a trasformare gli zuccheri in alcol. Nel caso delle birre ad alta fermentazione si tratta del lievito più comune, il lievito di birra, scientificamente noto come Saccharomyces cereviasae. Si tratta di un lievito che lavora a temperature comprese tra i 19 e 23 °C, che produce colonie di cellule che galleggiano sulla superficie del mosto spinte dall’anidride carbonica (da qui il fatto di chiamarlo ad alta) e che, oltre al gas e all’alcol, sintetizza diversi composti aromatici che in modo più o meno evidente segnano il profilo aromatico delle birre che lo impiegano. Il lievito a bassa fermentazione, invece, noto come Saccharomyces pastorianus o carlsbergensis (perché isolato per la prima volta nei laboratori della danese Carlsberg, che lo donò poi gratuitamente a chiunque volesse farne uso) lavora a temperature più basse, tra i 9 e gli 11 °C, si deposita al fondo del fermentatore e produce un quantitativo minore di composti aromatici e di alcoli superiori. Le birre ad alta fermentazione sono comunemente dette ale quelle a bassa sono, invece, le lager. Torneremo nelle prossime puntate di questo viaggio ad approfondire le caratteristiche dell’una e dell’altra famiglia, per ora fate tesoro di questa prima, grossolana, distinzione.

Infine, ci sono le birre a fermentazione spontanea. Inserite in diversi famosissimi dipinti di Bruegel Il Vecchio le birre a fermentazione spontanea sono forse la più fedele rappresentazione che possiamo avere in epoca contemporanea di come sia stata per millenni la birra. Si tratta di birre nelle quali non viene aggiunto alcun tipo di lievito. Si lascia che il mosto fermenti con i microrganismi – lieviti, batteri, funghi – che lo contaminano durante il raffreddamento che, invece di avvenire in un ambiente isolato, è condotto in una vasca aperta, spesso posta nel sottotetto del birrificio. Come dicevamo in precedenza, le due tipologie di birra a fermentazione spontanea più famose sono il lambic e la gueuze. Il lambic che, se così denominato, può essere prodotto solo nella valle della Senne in Belgio, è il risultato della fermentazione spontanea e della successiva maturazione in botte di un mosto di malto d’orzo e frumento. La gueuze è, invece, la bevanda che si ottiene dal blend di diversi lambic, quasi sempre con diversi gradi di maturazione – classicamente si mescolano lambic di 1, 2 e 3 anni – e dalla successiva rifermentazione in bottiglia che consente alla gueuze di essere gasata, laddove il lambic è, invece, fermo.
In occasione del Toer de Gueuze svoltosi nei giorni scorsi è stata presentata al pubblico la Oude Gueuze Megablend 2021, birra che vede la collaborazione dei dieci produttori di lambic iscritti al consorzio per la tutela di questa bevanda che prende il nome di Horal. I dieci birrifici sono (in rigoroso ordine alfabetico): Boon, De Cam, De Troch, Hanssens, La Morte Subite, Lambiek Fabriek, Lindemans, Oud Beersel, Tilquin, Timmermans. La Megablend 2021 è un’edizione speciale di gueuze ottenuta con lambic di uno, due e tre anni di maturazione. È una birra di grande carattere e non semplice, soprattutto se si è al primo assaggio, come sempre sono le gueuze, caratterizzata da una spiccata acidità, da note di frutta gialla, succo di pompelmo, fiori e da sensazioni, piuttosto classiche, lattiche e di cantina. La bocca è ampia e rinfrescante, con un finale che affianca alle note più aspre, tipiche dello stile, una sensazione di miele e una bella punteggiatura amara e sapida.
