Il declino inesorabileIl calo delle nascite indebolisce il fragile equilibrio tra pensionati e lavoratori

Finora le risposte dei governi alla crisi demografica in Italia sono state timide, frammentate e non ben coordinate. La diminuzione di donne in età fertile e del numero di figli per famiglie sono i due fattori principali. Non è solo un problema culturale, ma riguarda anche e soprattutto le opportunità di lavoro

Pixabay

Invertire la crisi demografica italiana è diventata una delle priorità del paese. Da un lato, come già osservato attraverso i dati di dicembre 2020 e gennaio 2021, la pandemia ha generato un impatto negativo sulla demografia del paese. Nel primo mese di quest’anno si sono registrate 30.676 nascite: una diminuzione del 12% rispetto al gennaio 2020. Ma la crisi demografica che vive il paese ha radici ben più profonde. 

Nel periodo 2007-2010 si sono registrate in media 567mila nascite, tra 2017-19 la media annua era scesa a 440mila (-22%). Nel 2020 si sono registrate solo 404 mila nascite: il numero più basso dall’Unità d’Italia. I dati relativi al mese di gennaio di quest’anno indicano che molto probabilmente quest’anno si registreranno meno di 400 mila nascite. 

Ci sono due fattori che incidono sulla crisi, già da prima della pandemia. Il primo è la diminuzione di donne in età fertile. Un fattore esogeno e preponderante. Nella prima decade del 2000 il numero di donne d’età compresa tra 15 e 44 anni era 9,5 milioni (8,1 milioni escludendo la fascia d’età 15-19). Nel 2020 il numero di donne d’età compresa tra 15 e 44 anni era 8,1 milioni (6,8 milioni escludendo la fascia d’età 15-19). 

Il secondo fattore è la diminuzione del numero di figli per donna. Negli anni ‘60 e ‘70 era 2,3 ma già a partire dagli anni ‘80 il tasso si è stabilizzato al di sotto del 1,5, scendendo nella prima decade del 2000 al 1,34. Nel 2019 il tasso registrato era 1,26, il peggior dato in Europa dopo la Spagna (1,23) e lontanissimo da Germania (1,54) e Francia (1,86). Come riporta l’Istat la tendenza è avere un figlio per coppia anche se «in Sardegna (0,95 figli per donna), per il secondo anno consecutivo non si coglie nemmeno l’obiettivo minimo di rimpiazzare almeno un genitore».

Non è solo un problema culturale ma soprattutto di opportunità di lavoro. Il tasso di occupazione della popolazione tra i 15 e i 39 anni (47%) è il più basso dell’UE (61% in media) e anche l’occupazione femminile in Italia (53%) è lontanissima dalla media europea (66%). Inoltre le regioni meridionali (Sicilia, Calabria e Campania) registrano i dati peggiori dell’Europa continentale: meno di una donna su tre ha un lavoro.

La costante riduzione delle nascite genera quindi uno squilibrio tra classi di età. Oggi l’Italia è il Paese con la più alta percentuale di over 65 nell’Unione europea: 23,2% contro una media europea del 20,6%. Il numero di bambini di età uguale o inferiore a 10 anni (4,8 milioni) è leggermente superiore a quello degli anziani di età superiore a 80 anni (4,4 milioni).

Inoltre, in Italia il tasso di dipendenza degli anziani è il più alto dell’UE. In Italia, per ogni 100 persone di età compresa tra 15 e 64 anni, ci sono 36,4 persone con più di 65 anni. La media europea è di 32 mentre in un paese culturalmente simile al nostro, come la Spagna, è di 29,7.

Non sorprende che, secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), l’Italia sia tra i paesi che più scende per le pensioni in percentuale del proprio Prodotto interno lordo (15%) mentre la Germania spende circa il 10%. Secondo il ministero italiano dell’Istruzione, nei prossimi dieci anni l’Italia potrebbe avere fino a 1,4 milioni di studenti in meno. La crisi demografica sta amplificando quindi la sfida di trovare un equilibrio tra una maggior numero di pensionati e un minore numero di lavoratori.

Negli ultimi anni il governo italiano ha cercato di incoraggiare i tassi di natalità e garantire maggiori diritti ai genitori. La legge prevede un’indennità annuale per i neonati che varia in base al reddito familiare e che, in situazioni estreme, può arrivare fino a 2.000 euro all’anno. Ma è una misura che copre solo il primo anno e non ben coordinato con altre misure.

D’altra parte, il Governo ha promesso di aumentare il numero di asili nido e, come riporta l’Istat «La percentuale di copertura dei posti rispetto ai bambini residenti fino a 2 anni compiuti è passata dal 24,7% al 25,5%». Ma, prosegue, «nonostante i segnali di miglioramento, l’offerta si conferma sotto il parametro del 33% fissato dall’Ue per sostenere la conciliazione della vita familiare e lavorativa e promuovere la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro».

Finora le risposte dei governi alla crisi demografica sono state timide, frammentate e non ben coordinate. La pandemia e i fondi europei rappresentano il momento del cambiamento. Il riordino delle misure di assistenza alle famiglie, approvato con legge delega lo scorso marzo, è un tema in agenda e, come annunciato dal Presidente Draghi dovrebbe slittare al 2022. La volontà del governo è introdurre un assegno unico e universale che possa sostituire tutte le misure in vigore. Sarebbe un premio riconosciuto per il nucleo familiare e per tutti i bambini dalla gravidanza della madre fino ai 21 anni. L’importo dell’assegno dovrebbe variare in base al reddito familiare, al numero di figli e alla loro età.

Si tratta di una riforma ambiziosa e che potrebbe ribaltare la logica dell’intervento. Finora, infatti, buona parte degli aiuti del governo alle famiglie è passata attraverso detrazioni fiscali. Approvare la riforma dell’assistenza alle famiglie implicherebbe quindi la presentazione di una riforma fiscale. Per questo motivo il Parlamento e il Governo stanno ancora discutendo la misura e cercando di determinare l’importo dello stanziamento. Draghi ha promesso che la cifra sarà mediamente di 250 euro al mese per bambino, ma i 20.000 milioni di euro stanziati per la riforma potrebbero essere insufficienti. Nelle prossime settimane governo e parlamento dovranno trovare la quadratura del cerchio. 

Tuttavia, nessuno si illude che la riforma possa invertire la crisi demografica italiana. Il motivo principale per cui i giovani preferiscono avere un figlio in ritardo è l’incertezza economica e, come mostrano gli ultimi dati, la pandemia ha peggiorato la situazione socio-economica soprattutto dei più giovani e delle donne. È per questo che la crisi demografica può essere risolta solo attraverso una crescita economica sostenibile e inclusiva. «Per decidere di avere figli, i giovani hanno bisogno di un lavoro certo, una casa e un sistema di welfare e servizi per l’infanzia» Draghi dixit.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club