Secondo alcune recenti rilevazioni dell’istituto di ricerca IPSOS, in meno di un secolo la popolazione mondiale perderà l’equivalente di tre Paesi delle dimensioni degli Stati Uniti. Questo accadrà sostanzialmente per tre fattori chiave: l’urbanizzazione, l’invecchiamento e il tasso di natalità, sul quale nell’ultimo anno il Covid-19 ha avuto un impatto consistente.
Contrariamente a quanto siamo abituati a immaginare quando ci inseriamo nel dibattito globale sulle ricadute negative della sovrappopolazione in termini di consumo delle risorse planetarie e ambientali, in realtà la popolazione non sta registrando una crescita incontrollata ma anzi, tra soli tre decenni, se non prima per via degli effetti della pandemia, inizierà a diminuire.
Oggi la popolazione mondiale è di 7,8 miliardi di persone e avrà difficoltà ad arrivare a 8,5 miliardi prima di cadere in declino a causa di tutte quelle forze che hanno già iniziato ad agire e i cui effetti già sono manifesti in molti ambiti del nostro vivere quotidiano.
Cosicché oggi, nella maggior parte dei Paesi sviluppati il tasso di natalità delle donne oltre i 40 anni ha superato quello delle donne di 20 anni e più giovani. C’è da considerare inoltre che dal 1960 nei dieci Paesi più popolosi al mondo il tasso di natalità è diminuito di oltre la metà e in 8 di questi 10 Paesi ha già raggiunto il tasso di sostituzione naturale o addirittura ne è al di sotto. La qual cosa comporta che la crescita della popolazione mondiale attuale non sta avvenendo in relazione al numero di nascite ma per l’allungamento della vita.
Dunque se da un lato si vive di più, dall’altro il mondo invecchia.
In tutto questo va considerato l’impatto della pandemia. Secondo le stime del Brookings Institute, per fare qualche esempio, negli Stati Uniti a causa del Covid-19 nasceranno 300.000 bambini in meno, mentre il Canada ha appena registrato il più basso tasso di natalità della storia. Anche in Cina, nell’ultimo anno, le stime per le nascita mostrano un calo di circa il 15 per cento.
Per quanto riguarda il nostro Paese, da oltre un decennio siamo un’Italia sempre più anziana e meno popolata, afflitta da carenze strutturali e legislative a livello fiscale, economico e sociale che ricadono sul crollo delle nascite. Secondo l’Istat abbiamo registrato un ennesimo calo anche nel 2020. Negli ultimi 12 anni siamo passati da un picco relativo di 577 mila nati agli attuali 404 mila, il 30% in meno. Il tasso di fecondità è sceso a 1,24 figli per donna, da 1,27 del 2019.
La natalità non è tuttavia un fatto meramente demografico bensì come è emerso agli Stati generali della natalità organizzati qualche giorno fa nel Foyer dell’Auditorium della Conciliazione a Roma, una questione antropologica, politica e ambientale. Senza natalità le famiglie, le società e i paesi muoiono per assenza di futuro e in questo contesto il nocciolo è favorire un cambiamento culturale.
Tra i tanti passaggi significativi dell’intervento di Papa Francesco quello sull’educazione mi è stato particolarmente caro perché ha sottolineato un tema che mi adopero da lungo tempo a diffondere. Nell’educazione «l’esempio fa molto» – ha affermato – «è triste vedere modelli a cui importa solo apparire, sempre belli, giovani e in forma». Ma mantenersi giovani «non viene dal farsi selfie e ritocchi», ma «dal potersi specchiare un giorno negli occhi dei propri figli». «A volte, invece, – ha sottolineato il Papa – passa il messaggio che realizzarsi significhi fare soldi e successo, mentre i figli sembrano quasi un diversivo, che non deve ostacolare le proprie aspirazioni personali». Ma «questa mentalità è una cancrena per la società e rende insostenibile il futuro».
Ecco come sia sempre più centrale, necessario e urgente assumerci, individualmente prima e collettivamente poi, il ruolo attivo dell’educatore. Un ruolo che è di tutti gli uomini, ciascuno nella propria sfera di influenza può fare la differenza nell’innescare quel cambiamento per il Bene a cui i tempi ci chiamano.