La buona notizia è che la globalizzazione non si fermerà. Anzi, tornerà più forte di prima. A dirlo è questo articolo del professor Harold James, pubblicato su Foreign Affairs. È già successo in passato, spiega. E succederà anche stavolta. A ogni shock, questa è la formula, segue un periodo di crescente connessione tra Stati e soggetti privati.
La pandemia ha isolato Paesi, interrotto forniture e rapporti, riesumato confini e barriere. Con i vaccini poi, è ripartita, più aggressiva di prima, una lotta per il primato mondiale tra Cina e Stati Uniti.
Eppure è anche vero che, nonostante tutto, il Covid ha dimostrato la necessità di mantenere solide interconnessioni tra Paesi ed economie. Ha anche reso evidente che dai momenti di crisi e difficoltà si esce insieme. Lo ha capito l’Unione Europea, che ha elaborato un piano di aiuti comuni, e lo hanno capito tutti i Paesi che, in fatto di forniture e di vaccini, si sono trovati a dipendere gli uni dagli altri.
La globalizzazione insomma è rallentata (l’articolo parla di slobalisation) ma non esaurita (cioè non c’è nobalization). L’impulso è mantenuto e la direzione è rimasta. È solo questione tempo.
Lo insegna anche la storia. Sia nelle crisi che hanno avuto luogo nel 1840 e nel 1970 la risposta generale ha portato a un aumento della globalizzazione e non a una sua diminuzione. In entrambi i casi, poi, si sono viste all’opera le stesse dinamiche: prima un periodo di shock generale, cui segue una risposta immediata in direzione nazionalista e protezionista (che fallisce), a quel punto si verifica un aumento delle proteste da parte dei cittadini, con tanto di delegittimazione delle classi dirigenti, fino ad approdare a soluzioni di apertura agli altri Paesi e ripresa dello sviluppo e dei commerci.
Gli anni ’40 del XIX secolo sono, in questo senso, da manuale. L’epoca che, a detta di tutti gli studiosi, ha dato il via alla globalizzazione moderna è cominciata con una crisi o meglio, ancora, con «un disastro». Un decennio segnato da carestie, fame, malattie, crolli finanziari, un caos la cui epitome è la Grande carestia irlandese, la celebre crisi delle patate, che portò milioni di persone alla fame, ne spinse altre migliaia a emigrare e rovinò per sempre i rapporti tra Gran Bretagna e Irlanda.
Ai problemi alimentari si aggiunsero, in tutta Europa, proteste e sollevazioni popolari, il cui movimento culminò nel 1848 (non a caso è lo stesso periodo in cui Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono il “Manifesto del partito comunista”).
In questa Europa finita nel caos quello che si vide subito fu che gli Stati, da soli, non avevano gli strumenti per risolvere i problemi. Il protezionismo tra Paesi ingolfava i commerci, allungava i tempi e aumentava i prezzi. Londra lo scoprì nel tentativo di intervenire nella crisi irlandese. L’acquisto di grano arrivò a costare troppo, fu seguito da una organizzazione logistica disordinata e improvvisata e determinò una crisi finanziaria, che ebbe ripercussioni nell’economia generale, in cui si registrò un aumento della disoccupazione.
La soluzione venne raggiunta attraverso vari tentativi. Si fecero riforme sulla distribuzione e la coltivazione delle terre, aumentarono gli interventi statali e, soprattutto, vennero diminuite le tariffe e i dazi negli scambi commerciali con gli altri Paesi. In Francia il presidente e poi imperatore Napoleone III riorganizzò la macchina statale e mise in piedi una serie di opere pubbliche di grande impatto, come la ricostruzione di Parigi secondo i dettami di Haussmann, che rivoluzionò il quadro cittadino privilegiando gli ampi spazi dei grandi boulevard della città.
L’accordo commerciale per un abbassamento dei dazi tra Francia e Inghilterra fece da esempio anche per gli altri Paesi, che attraverso una serie di accordi bilaterali aprirono rotte commerciali più agevoli e convenienti. La svolta verso la globalizzazione era all’inizio: al taglio delle tasse doganali seguì il miglioramento delle vie dei trasporti e la diffusione della ferrovia.
Era un nuovo impulso, guidato dai commerci e che inseguiva la prosperità. In questo quadro rientra la creazione di nuovi Stati, come Italia e Germania, nati aggregando piccole entità ormai inadeguate ad affrontare il piglio imposto dalla modernità. Ma vanno comprese anche la riforma dell’amministrazione pubblica dell’impero asburgico (con la cancellazione delle dogane interne), la guerra civile americana e l’abolizione del feudalesimo in Giappone, con il ritorno della dinastia Meiji.
Al cammino istituzionale si accompagnò un’accelerazione dell’industrializzazione, che determinò lo sviluppo di nuove competenze, la crescita di una classe di esperti, una maggiore distribuzione della ricchezza e la conseguente installazione di un nuovo sentimento prevalente: l’ottimismo.
Il seguito è noto. Gli equilibri economici della seconda metà del secolo non riusciranno a risolvere importanti contraddizioni interne, in particolare di carattere nazionalista, e culmineranno nel disastro della Prima Guerra mondiale.
La seconda partenza, determinata da un riassetto fondamentale imposto nel 1945, avverrà più tardi e verrà dilatata nel tempo. Se nel mondo uscito dalla Seconda Guerra mondiale veniva costruito su premesse internazionaliste, anche grazie a una serie di organizzazioni sovranazionali, su quello economico si agì con maggiore prudenza. Il potere e il controllo rimasero nelle mani degli Stati e dei governi locali: il flusso di capitali era frenato, gli ambiti di azione circoscritti. In un certo senso, a parte i piani di ricostruzione alimentati dagli Stati Uniti, lo sviluppo andava col freno tirato.
È per questo che la seconda fase comincia più tardi, quando negli anni ’70 anche i nodi di questo modello entrano in crisi.
Come da manuale, si assiste di nuovo a un problema di scarsità. Stavolta la crisi non è alimentare ma energetica. A mancare (o meglio: a costare troppo) è il petrolio. Le conseguenze sono le stesse: aumento dei prezzi, tentativi d intervento pubblico (le giornate senza automobile), blocco della produzione.
Anche qui le prime reazioni della politica vanno nella direzione sbagliata. Di nuovo, si segue la strada del protezionismo alimentando la produzione interna nell’ottica di una «economia dell’assedio», soprattutto in Inghilterra.
Eppure, anche in questo caso, la soluzione che si presenta è di tipo globale. Fu grazie all’emergere di grandi organizzazioni bancarie internazionali che gli Stati riescono a trovare le risorse necessarie per far ripartire l’economia. Tornano gli investimenti, viene aumentata la spesa pubblica e alimentata la ripresa. Al prezzo, come è ovvio, di accrescere l’inflazione. Questo ultimo aspetto è particolare perché, ricorda l’articolo, era avvenuto anche prima.
Nel XIX secolo fu casuale. La crescita dell’inflazione era dovuta all’incrocio della corsa all’oro californiano e della rivoluzione del credito in Europa, dove erano stati inventati nuovi prodotti finanziari (i crédits mobilièrs). In quel contesto i prestiti divennero più facili e aumentò la disponibilità di denaro.
Negli anni ’70 fu una mossa voluta. Nixon mise fine al gold standard e favorì una serie di manovre espansive. Fu una soluzione che durò per poco. L’inflazione, si comprese subito, indeboliva la società e dava sempre più potere ai gruppi di pressione. Si cercò una forma di regolamentazione comune, con l’istituzione di incontri periodici tra Stati per regolare la politica monetaria globale. È l’inizio dei G-5, poi G-7 e poi ancora G-20.
La morale è semplice: in entrambi i casi la globalizzazione è stata la soluzione e lo sarà anche oggi. Prima di tutto perché la crisi provocata dal Covid non riguarda la domanda, come nel XIX secolo o negli anni ’70. È una crisi economica provocata dalle chiusure imposte dalla pandemia.
Tuttavia anche in questo caso ci sono pacchetti di stimoli economici messi in campo dai Paesi più ricchi, anche qui si investe nella ripresa e anche in questo caso si è incontrato il problema delle carenze. Non di cibo né di energia, ma di materiale sanitario e di microchip.
Ogni epoca ha la sua materia che scarseggia: nel XIX secolo era il cibo, nel XX il petrolio. Stavolta la nuova globalizzazione non può prescindere dagli strumenti elettronici, che accompagnano e determinano la nuova rivoluzione industriale e sociale in atto: quella dei dati.
Se in un quadro dove ogni Paese misura la capacità di successo degli altri sulla base del contenimento del virus e della gestione dei vaccini la risposta nazionalistica può sembrare inevitabile, la verità è che la via di uscita si è trovata solo con la collaborazione tra Paesi (e lo si è visto con i vaccini).
La direzione è già tracciata e ogni Paese è chiamato a guardare agli altri, a copiare il meglio e a innovare in modo costante ed efficace.
Imparare e adattarsi, insomma. Vale per tutti e, nonostante tutto, anche per gli americani.
La conclusione dell’articolo è che, in questo quadro globale e interdipendente, la loro superiorità non tiene più. Il dominio di oggi, basato su lingua inglese e dollaro, potrebbe non essere più quello di domani, con i nuovi programmi di traduzione automatica e con la Cina che, ironia della sorte, esce meglio degli altri dalla pandemia.
La costruzione del futuro è di conseguenza mondializzato e interdipendente. È una nuova realtà a cui tutti i Paesi sono chiamati a contribuire, a farne parte. Superando gli ulteriori ostacoli che dividono ancora.