Il gettone nell’iPhoneL’incapacità dei sindacati di contribuire alla ripresa dell’Italia

Col Recovery Plan gli italiani sono pronti a ripartire ma le organizzazioni sindacali non sanno come contribuire a questo grande impegno collettivo. Manca una visione del futuro del Paese che non sia la resurrezione del bel mondo che fu. Serve un nuovo patto sociale che rilanci la produttività e risolva il problema cronico del mismatch tra la domanda e offerta di lavoro

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Oggi, 1° Maggio, i sindacati ritornano nelle piazze. Nel pomeriggio a Roma si svolgerà il Concerto che è diventato da molti anni l’evento che caratterizza la Festa del Lavoro e rappresenta l’occasione (forse l’unica o almeno la più importante) di incontro con i giovani. Lo dimostra l’insistenza con cui le confederazioni sindacali sollecitano l’apertura di un confronto con il governo sul tema delle pensioni (a questo proposito il 4 maggio si svolgerà una iniziativa con i tre segretari generali, che precederà la convocazione di un incontro da parte del ministro Andrea Orlando).

Ovviamente, per salvarsi la coscienza, i dirigenti sindacali rispondono che la loro principale preoccupazione è quella di assicurare una pensione di garanzia proprio ai giovani di oggi per quando diverranno anziani domani. E il candore, con cui ribadiscono il loro intento, scoraggia chiunque a far notare la singolarità di un sindacato che si dà cura di occuparsi dei giovani per quando, in una sorta di ritorno al futuro, diverranno pensionati. In ogni caso – proprio perché, le organizzazioni sindacali sono le uniche istanze sopravvissute dal naufragio dell’associazionismo democratico e sono ancora dotate di strutture, capitale umano, risorse, agibilità politica, diritti – il loro ruolo è (meglio dire, sarebbe) essenziale nel garantire una ripartenza dell’economia.

Le condizioni esistono. Il governo – sia pure con tratti di eccessiva cautela – si orientato a riaprire il Paese. Una scelta contrastata dai soliti avvoltoi, ma indispensabile per voltare pagina, per evitare che la resilienza inghiotta la ripresa. In sostanza, una premessa necessaria a rendere credibile il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, perché non si cambia un Paese con lo smartworking, la cassa integrazione e la didattica a distanza. Altrimenti continueremmo a sperimentare una versione moderna del ‘mito della caverna’ di Platone; tutti intenti a osservare sulla parete le ombre di uno sviluppo che passa altrove.

Non si può rimproverare solo i sindacati per essere rimasti, nell’ultimo anno, imprigionati dal meccanismo infernale delle ‘chiusure assistite e dal diktat delle restrizioni anti-contagio, divenute la variabile indipendente, perciò tiranna’ di ogni aspetto della vita attiva. È questa la condizione da cui l’intero Paese ha stentato e stenta a liberarsi. Da alcuni giorni tuttavia la prospettiva di una stagione delle riaperture ha dischiuso la strada, grazie al PNRR, a una visione’ del futuro prossimo del nostro Paese in grado di raccogliere le opportune convergenze nei confronti di obiettivi condivisi e di riforme necessarie.

Nel suo insieme la politica è stata a guardare; il confronto tra i partiti continua a svolgersi interamente all’interno di un passato che non riesce a passare (il coprifuoco, gli orari della ristorazione, i trasporti, l’apertura delle scuole, ecc.). Nella gestione della pandemia il ruolo dei sindacati e in generale delle parti sociali è stato decisivo. Grazie ai Protocolli concordati nell’aprile dell’anno scorso e aggiornati di recente, è stato possibile riaprire in relativa sicurezza, dopo il lockdown dei primi cento giorni, importanti settori produttivi che hanno poi dato prova di una vitalità sostenuta ben oltre le previsioni. Il rinnovo dei contratti collettivi di lavoro ha fornito la rassicurante rappresentazione di una normalità di rapporti che la crisi sanitaria non è riuscita a travolgere.

Tuttavia, con la pretesa, assecondata dai governi, del blocco dei licenziamenti (che ormai è in vigore da oltre un anno e che potrebbe avere ulteriori proroghe se il governo accontenta ancora i sindacati) e dell’erogazione massiccia della cig da Covid -19 (è significativo notare il gap tra 4 miliardi di ore autorizzate e 1,9 miliardi di quelle impiegate nel c.d. tiraggio), le confederazioni sindacali (la Confindustria non è ancora riuscita a recuperare quel peso politico che ha perduto negli ultimi anni) si sono caratterizzate solo sul versante di un immobilismo privo di vie d’uscita.

Proprio perché il Paese, col PNRR, ha ritrovato un pensiero, emerge con una evidenza sconfortante l’incapacità dei sindacati (e delle forze sociali in generale) di contribuire, al di là degli slogan, a questo grande impegno collettivo. È il ‘pensiero’ ciò che manca al sindacato, insieme a una visione del futuro del Paese che non sia – basta ascoltare Maurizio Landini e i suoi colleghi di Cisl e Uil – la resurrezione del bel mondo che fu.

Non è un caso che un dirigente innovativo come Marco Bentivogli sia stato emarginato e rifiutato dall’establishment. Eppure, in una società liquefatta, dove i partiti si sono suicidati; quelli sopravvissuti escono dal mercato della politica e vi rientrano con un’altra ditta alla stregua di un’impresa edile fallita, i sindacati continuano ad esistere anche se le grandi ideologie che li crearono attraverso una loro costola, alla caduta del fascismo, si sono dileguate nel nulla. Cgil, Cisl e Uil, al contrario della leggenda, sono una sorta di Atlantide rimasta a galla dopo che i continenti circostanti sono stati travolti dalle acque.

Il governo Draghi non può fare a meno di queste risorse ora investite su di un asset vetusto e conservativo; gli serve riconvertirne l’uso per la rinascita del Paese. Ma deve sfidare i sindacati nella loro inerzia, perché solo in questo modo (soprattutto attraverso sconfitte come insegna la storia) queste organizzazioni danno il meglio di sé. Nella Premessa del PNRR Mario Draghi ha richiamato uno dei più gravi gap del nostro apparato produttivo e dei servizi, il cui superamento è indispensabile se lo sviluppo deve essere effettivo e adeguato.

«Dietro l’incapacità dell’economia italiana di tenere il passo con gli altri paesi avanzati europei e di correggere i suoi squilibri sociali ed ambientali – ha sottolineato Draghi – c’è l’andamento della produttività, molto più lento in Italia che nel resto d’Europa. Negli ultimi vent’anni, dal 1999 al 2019, il PIL per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2 e del 21,3 per cento. La produttività totale dei fattori, un indicatore che misura il grado di efficienza complessivo di un’economia, è diminuita del 5,8 per cento tra il 2001 e il 2019, a fronte di un generale aumento a livello europeo’».

Ecco perché è venuto il momento di un nuovo patto sociale. Il governo Draghi viene di solito messo a confronto con l’esperienza del governo Ciampi, un esecutivo che si trovò a gestire una transizione importante. Se nel 1993 l’accordo triangolare tra le parti sociali e quel governo aveva l’obiettivo di razionalizzare la contrattazione collettiva all’obiettivo strategico di portare l’inflazione all’interno dei parametri di Maastricht, oggi un nuovo patto sociale dovrebbe avere al centro due grandi questioni: a) il rilancio della produttività e il relativo recupero dei ritardi accumulati nel quadro dei nuovi processi tecnologici e attraverso la contrattazione di prossimità; b) l’avvio deciso di politiche attive in grado non solo di gestire gli esuberi e riqualificare la manodopera in mobilità verso altri settori produttivi, ma anche di gestire un mismatch tra domanda e offerta di lavoro. La riforma degli ammortizzatori sociali deve favorire questi processi.

I 945mila posti che sono venuti a mancare in un anno, sia pure in regime di blocco dei licenziamenti, sono in larga parte mancate assunzioni oppure il segnale di attività economiche chiuse. Non può andare aventi un Paese che lamenta nello stesso tempo disoccupazione, inattività e aziende che non trovano personale adeguato per decine di migliaia di posti di lavoro. Un Paese in cui sono cresciuti durante la crisi sia i posti di lavoro perduti che quelli vacanti, per la mancanza di lavoratori idonei o disponibili a ricoprirli.

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