Ortona a Mare, 28 ottobre 1585
Forse perché sentivo un gran caldo, o qualcosa ha interrotto il sonno, ma mi sono svegliata di colpo e ho pensato che fosse l’alba, forse potevo assistere al sorgere del sole. Sono uscita sulla terrazza che dà a Levante, e il sole era lì, uno spicchio che nasceva dal mare, rosso, prepotente e spargeva sull’acqua i primi liquidi raggi. Intorno un silenzio altissimo, il mondo ancora addormentato.
Ho respirato forte l’odore del mare, mi sono stretta sul capo e sul corpo una grande coperta di lana e ho deciso di restare lì, fino a che non fosse stata luce piena, a godere questo miracolo di luce nascente. Era tutto, ma proprio tutto – il mare, il cielo, il mondo, io stessa, il mio presente, il passato, qualunque cosa fosse stato – tutto di una assoluta e incantata bellezza.
Ho pensato: «Dio, fammi morire adesso, in mezzo a questo silenzio luminoso, chiamami mentre il mio corpo è pieno di gratitudine per la quantità di bellezza che c’è al mondo. Fa’ che io possa chiudere gli occhi in questo attimo dove non possono trovare posto il sangue, la guerra, i fedeli, gli infedeli, gli eserciti, il gelo, la fame. Fa’ che io possa sciogliermi da tutto il bello e il brutto che è stata la mia vita, certa solo di questo attimo di assoluta perfezione».
Mi ha trovato lì Greta. «Madama, ma come vi è venuto in mente di uscire al freddo? È una follia!» E mi ha spinto nella mia stanza, mi ha imposto di tornare sotto le coltri mentre continuava, concitata, a parlare ad alta voce: «Ma vi rendete conto dell’assurdità di quel che avete fatto? Ieri bruciavate di febbre, il medico vi ha proibito di alzarvi dal letto».
Greta, la sua fedeltà, la sua tenera cura della mia persona. Anche questo pensiero è finito dentro la grande bellezza del mondo che m’aveva, pochi istanti prima, trapassato come una rivelazione. Sorridevo e lei, indispettita dal mio sorriso, borbottava: «C’è poco da sorridere, Madama, siete stata molto, molto imprudente!».
Sono arrivata qui, a Ortona, quasi un mese fa. Ero convinta che il clima mite, l’aria di mare m’avrebbero giovato. Nel mio palazzo di Aquila il freddo era già pungente, i miei dolori avevano ripreso a farsi sentire con violenza. Ho deciso di venire sulla costa nel tentativo di migliorare la mia salute ma mi sono sbagliata di grosso. Tutto pare precipitare, da varie notti dormo con difficoltà e l’affannarsi dei medici mi fa pensare che temano seriamente per me. Naturalmente la piccola corte che ho portato fin qui, Greta in particolare, cerca di sminuire il mio stato, mostra un ottimismo di facciata. So che, invece, è preoccupata.
* * *
C’è un destino per tutti, dunque forse anche il mio è segnato. Se Dio vuole che i miei giorni finiscano qui non posso che accettarlo. Se così sarà, di una cosa sono contenta: che chiuderò gli occhi vicino al mare. Il mare, specie il mare d’inverno, col suo odore di sale e di vento, ha sempre esercitato su di me un’attrazione fortissima. La sua vastità e la forza delle onde, l’abisso delle profondità che lascia intuire, mi sono parse una delle prove dell’esistenza di Dio. Più del cielo.
Forse perché il cielo è immobile, in alto ma immobile, mentre il moto perpetuo del mare mi ha sempre richiamato a qualcosa di misterioso e potente.
Mi voglio preparare alla dipartita con la stessa meticolosità che ho usato per una vita nei miei tanti spostamenti. Con ordine, precisione, cura dei particolari. Solo che stavolta non so quale sia la mia destinazione. Chissà se Dio vorrà avermi tra i salvati, nonostante le colpe e i peccati che, pure, ho commesso.
È un Dio di misericordia quello in cui spero e credo. Recito ogni sera il Salmo e ripeto: «Se consideri le colpe, Signore, chi ti può resistere? Ma presso di te è il perdono…». Non ho mai riflettuto sulla vecchiaia, m’è sempre parsa qualcosa di là da venire, un incidente inevitabile. In fondo le mie tante occupazioni mi hanno fatto sentire attiva, lucida, non ho mai avvertito sul serio lo scorrere del tempo.
Solo da poco, in queste ultime settimane, mi si è palesata la realtà: sono vecchia, ancora lucida ma inchiodata nelle mie stanze da un corpo che ha ceduto, che non ne vuole sapere di riprendere energia. Questa considerazione m’ha stupita, l’ho vissuta come un affronto. Sto, da pochi giorni, imparando a conviverci e, dal momento che non posso oppormi al Tempo, sto utilizzando le mie notti quasi insonni per ripercorrere un’esistenza non tutta di miele e d’oro.
Riservo al mio corpo attente cure di igiene, non voglio sia impreparato quando chiuderò gli occhi. Chi mi maneggerà non avrà da fare un gran lavoro, forse dovrà occuparsi solo dei miei capelli. Quelli, di notte, li lascio liberi e solo Greta sa mettere ordine tra le ciocche sparse, al mattino.
Il mio corpo è divenuto pesante, lontanissimo da quello esile della prima giovinezza ma pure da quello robusto e sodo dei miei quarant’anni che ritrasse Antonio Moro. Il caro Anthonius Mor van Dashorst, questo il suo vero nome fiammingo, che potrei definire il ritrattista di famiglia giacché oltre al mio e a quello di mio padre, ha steso i ritratti di mio figlio Alessandro, di Carlos, di Maria Tudor, di Felipe. Oltre che del cardinale di Granvelle, del duca d’Alba, dell’Orange. Di coloro che la Storia ha intrecciato alle nostre vite.
Il tempo distorce le nostre sembianze, quelle cui eravamo abituati da decenni e per fortuna non ho ritratti di questo tempo di vecchiaia. Sono diventata una madama giunonica, col viso gonfio, il doppio mento, un seno voluminoso e fianchi da balia.
Quando mi guardo allo specchio vedo la ruga tra i sopraccigli divenuta una piega amara, le palpebre gonfie, il colorito smorto. A mio marito, Ottavio, gli anni hanno donato, invece, un aspetto gradevole, un’aria pensosa, un piglio da uomo di stato, una qual serietà benevola. Si è ingentilito. Da un giovane insipido e maldestro è venuto fuori un uomo ben piantato e finanche interessante.
Succede spesso ai maschi, migliorano con gli anni. Noi donne, altrettanto spesso, mostriamo maggiormente gli inclementi segni del tempo. Juan, il mio amato fratello, l’altro figlio bastardo dell’imperatore non ha fatto in tempo a diventare vecchio. Con lui il tempo non ha potuto nulla e resterà il baldanzoso uomo d’armi, il gran condottiero, l’eroe di Lepanto, il coraggioso bastardo Jeronìm con gli occhi neri come due more.
Non ho più incontrato mio padre dopo che si è ritirato a Yuste, e ormai da tempo ha lasciato questo mondo. Se penso a lui lo vedo com’è nei ritratti che conosco: maturo gentiluomo col suo cane, imperatore in armi nel pieno della maturità, vincitore a Mulberg, su un cavallo al galoppo. Il mento degli Asburgo noi figli bastardi non l’abbiamo ereditato. È passato a Felipe e da lui è arrivato al figlio Carlos.
Da mio padre ho ereditato i dolori alle gambe che mi obbligano a muovermi pochissimo e, nonostante i miei pasti siano da un po’ di tempo, per ordine dei medici, molto modesti per quantità, sono cresciuta tanto in volume e peso.
Sono lontani i corsetti duri e gli abiti che mi irrigidivano come una statua. Ora indosso tuniche morbide, scialli, camicie lente. Greta è l’unica con cui condivido le mie abluzioni e l’intimità. Mi è vicina da sessant’anni, fedele come un’ombra, ha diviso con me l’intera vita. È delicata mentre mi passa spugna e sapone sulla schiena, mi unge le gambe con estratti di arnica che, per un po’, mi alleviano i dolori, mi infila le calze di seta spessa che arrivano a stringere le cosce fino quasi all’inguine.
da “La signora delle fiandre”, di Giulia Alberico, Piemme, 2021, pagine 256, euro 17,50