La fotografia è bugiarda, non sempre mostra ciò che è davvero, che siano gli addominali di un influencer o che si tratti di un pollo alla diavola. La bravura di chi sta dietro l’obiettivo, sia esso blogger, photographer o semplicemente un amatore, è quella di far percepire la realtà esattamente con la stessa intensità di quello che proviamo, rivista secondo precisi canoni estetici ed emozionali. Ed è sul concetto di fotografia che ritrae la realtà (ma non troppo) che Mattia Lorenzetti e Guido Prosperi, travel&food blogger, hanno realizzato un volume completo ed illuminante su come fotografare il cibo: “Food Photography – Comporre, scattare e pubblicare foto irresistibili” edito da Apogeo/Feltrinelli e uscito lo scorso 29 aprile in libreria. Mattia e Guido hanno un blog, nato nel 2019, Charmen, che racconta del cibo e del viaggio “a modo loro” (e con foto bellissime), e hanno deciso di condividere i segreti del mestiere in un libro che vuole essere concreto e ispirazionale, una guida, appunto, per creare scatti irresistibili.
«All’inizio del primo lockdown avevamo in programma una serie di servizi legati al food da realizzare» raccontano Guido e Mattia «ma ovviamente ci siamo trovati a dover cancellare tutte le date a causa del covid, allora abbiamo utilizzato il tempo realizzando un volume che raccontasse per la prima volta – perlomeno in Italia – non solo la fotografia da smartphone, ma quella dalla côtè più professionale, un prontuario per imparare a fotografare al meglio il cibo, con una serie spunti, piccole astuzie ed esempi passo passo. E l’editore ha accolto con entusiasmo la nostra idea».
Il tema del libro ovviamente è il cibo nella fotografia, quello che ci fa dire davanti allo scatto di un cornetto alla crema “wow come è soffice” o “oddio vorrei mangiarla subito”: «un libro dal taglio ampio» spiegano «per chi vuole muovere i primi passi all’interno della fotografia del cibo, completo di studio del colore, tutorial delle ricette e suggerimenti di styling, elemento fondamentale in una buona foto di food». Si inizia con la scelta dall’attrezzatura più adatta e delle nozioni di base su apertura, esposizione e illuminazione, per poi approfondire le tecniche di composizione e del colore.
«Ci sono tanti esempi, tutti replicabili, a cui va abbinata la sensibilità personale di chi sta dietro l’obbiettivo, ma che senza tecniche di base non ha motivo d’essere. Sono tutte vie percorribili, vogliamo che ci legge cresca con il libro, sperimenti, giochi. Questo è un settore in grande fermento e abbiamo dato attraverso le pagine del volume un modo nuovo di vedere l’immagine, che include anche il racconto di un piatto, la sensibilità dello chef, la genesi di un’idea. Insomma, un piatto di gricia non è solo un piatto di gricia, ci vuole la croccantezza e la matericità del guanciale e, perché no, i colori di Roma, la storia del cuoco che lo ha realizzato, ma non in forma smaccata: deve essere un messaggio subliminale. Una fotografia ben riuscita ha con sé dei rimandi che non sono palesi, ma che al tempo stesso raccontano la storia di ciò che è stato cucinato. E per fare questo non ci si improvvisa, ma ci vogliono applicazione e competenza. Bisogna studiare la preparazione prima di fotografarla, capirla, comprendere la persona che l’ha pensata e realizzata».
Ma se anche la foto recita “non c’è trucco e non c’è inganno” non sempre è così. «Abbiamo dedicato un intero capitolo a questo, anche se ci teniamo a sottolineare che abbiamo mangiato il 99% dei piatti ritratti fra queste pagine, anche per una nostra personale questione etica» continuano. «Ci sono trucchi “naturali” come, per esempio, spennellare di olio un filetto per farlo risultare brillante, spargere goccioline d’acqua o glicerina sulla frutta e sulla verdura per dare l’effetto rugiada». Poi ci sono escamotage, ci rivelano, che non rendono edibile il prodotto, «come il gelato fatto con i fiocchi di patate e colorante, per far sì che non si sciolga, la panna che in realtà è schiuma da barba, il cartone al posto del Pan di Spagna o una marea di stuzzicadenti per sorreggere hamburger o torte. Il pollo fresco invece si spennella con il lucido da scarpe e i pancakes vengono irrorati con olio delle macchine per creare l’effetto “denso” dello sciroppo d’acero, che in realtà è molto più liquido di quello che si vede fotografato».
E poi c’è la postproduzione, sia da desktop sia da mobile, con app facili come Snapseed, l’editor fotografico di google, o Mojo che aiuta a creare “non le solite stories”. Insomma, il mondo che va dallo scatto alla pubblicazione è decisamente sfaccettato e complesso. Una foto non è solo una foto, quello che va trasmetto è l’intero contesto, soprattutto nelle immagini che combinano il cibo con il viaggio. «C’è una parte estremamente intensa quando si visita un luogo e se ne fotografa il cibo. Quando abbiamo fotografato la felciata, un formaggio che si gusta solo nel Pollino, dal sapore deciso, c’è stata la necessità di portarsi dietro un mondo interno nell’immagine. Poi ci sono le situazioni più diverse, che risentono delle condizioni del momento. Un giorno ci siamo trovati a Punta Tragara, con la pioggia che batteva sul golfo di Capri. Niente sole, eppure l’immagine che ne è uscita è così diversa e così unica, che trasmette più emozioni di un’immagine con il sole».
E qui è questione di sensibilità, sia di come lo si fotografa sia di come si presenta il cibo «una pietanza cucinata ad hoc e impiattata a regola d’arte, con criterio e gusto, esaltando tutti gli ingredienti, è più facile da fotografare di qualcosa che è stato “lanciato” dentro a un piatto». Dunque come fare? Sperimentare, sperimentare e ancora sperimentare, questo è il diktat, essere fieri di quello che si fotografa e gustarlo, anche mangiarlo per comprenderlo e rispettarlo, perché – come ci hanno tenuto a sottolineare – «nessun cibo è stato maltrattato nella realizzazione di questo libro».