Vuoto retoricoMangiare responsabile è impossibile, se dietro non vedi la comunità del cibo

Ciò che mangiamo ci permette di sopravvivere, stimola un istinto profondo, naturalmente egoistico, che mal di accorda con la solidarietà alimentare sbandierata così spesso ultimamente, per questo ci chiediamo: esiste davvero una gastronomia giusta e etica? O è solo una bella storia?

«Non può esistere responsabilità senza solidarietà. Ma la solidarietà non può essere un mito da invocare quando non si trovano altri strumenti politici a disposizione, né un valore morale da sbandierare per dividere gli schieramenti in buoni e cattivi. Ogni solidarietà ha bisogno, invece, di una comunità entro cui esercitarsi». Queste parole sono di Federico Bianchi, che ha scritto un articolo su Il Tascabile dal titolo Responsabilità limitata. Nel pezzo in questione Bianchi parla di come, ancora di più in questʼepoca eccezionale, il richiamo alla responsabilità sbandierato da diverse autorità politiche rischi di rimanere un vuoto esercizio retorico, se alle spalle non si coltivano le relazioni sociali e le reti di solidarietà comunitaria. Questa riflessione mi ha fatto pensare a come il mondo del cibo mainstream pratichi (o meglio, non pratichi) questa solidarietà, a come in rarissimi casi intorno al cibo ci sia una vera e propria comunità di riferimento, a come i nostri comportamenti individuali e le nostre azioni collettive di indirizzo culturale e politico siano quasi sempre declinate in senso egoistico, quando si parla di alimentazione. Cʼentrano sicuramente lʼistinto di sopravvivenza da un lato, che si fa forza del fatto che mangiare a sufficienza è prerequisito necessario per continuare ad abitare questo nostro mondo da vivi, e la spinta edonistica dallʼaltro, che invece ci spinge a coltivare il piacere e la ricerca continua della felicità. Spinte di pancia, inevitabilmente, che molto spesso ci portano ad agire di pancia anche nel contesto delle nostre relazioni sociali più strette.

Il moderno sistema alimentare mainstream (lasciamo da parte le tante e fortunatamente sempre più numerose esperienze virtuose) si fonda proprio su un meccanismo iper-egoistico, quasi a compartimenti stagni. Lʼatto del mangiare è perlopiù slegato dalla considerazione delle condizioni in cui il cibo che abbiamo nel piatto viene prodotto e poi commercializzato. Le filiere sono lunghe, spezzettate, lontane dagli occhi e dal cuore. La nostra cucina è il luogo privato della cucina privatizzata. Per questi motivi, oggi il concetto di alimentazione responsabile è solo una bella storia che pochissimi (bravi loro) mettono in pratica, e di cui tanti parlano, spesso un poʼ a vanvera. Rivoluzionare il sistema alimentare, o riformarlo (per i più moderati), richiede innanzitutto un ragionamento su come il nostro cibo si incastra nella triade responsabilità-solidarietà-comunità. La mia risposta è: per ora molto male. Perlomeno nellʼAnno Domini 2021.

Venendo agli articoli che condivido questa settimana, si parte da un pezzo di Amy McCarthy per Eater, sullʼinvito dellʼamministrazione Biden ai disoccupati di accettare ogni lavoro “accettabile” che gli verrà offerto: una richiesta di responsabilità, insomma, che tuttavia non tiene conto del fatto che certi settori in particolare, tra cui molti legati al mondo del cibo, tra cui la ristorazione, si reggono su condizioni di lavoro a dir poco scarsamente dignitose. Nella sua newsletter settimanale Alicia Kennedy parla sempre di lavoro, in questo caso il suo: una freelance che scrive di gastronomia, e che deve fare i conti con la sua condizione e con la necessità di continuare a guadagnare anche quando lʼispirazione e le motivazioni scarseggiano. Poi cʼè un contributo di Stella Levantesi per Internazionale che parla di un altro tipo di responsabilità, intesa più come colpa: è quella dellʼindustria agroalimentare nellʼattuale crisi climatica. Più o meno sulla stessa lunghezza dʼonda troviamo Emanuel Della Cave per The Vision. Poi è il turno di un articolo di Eric Asimov sul New York Times che parla non tanto dei libri sul vino, quanto dei libri sul vino ispirano e informano in profondità, contribuendo a cambiare la mente di chi li legge e – aggiungo io – instillare un nuovo senso di responsabilità. Infine, due articoli meno in tema ma comunque meritevoli di attenzione: sul New Yorker Jiayang Fan scrive del Disgusting Food Museum di Malmö, e di come nel visitarlo si sia sentita al tempo stesso turista e “pezzo della collezione”, mentre su Dissapore Giuliano Bormioli scrive nientepopodimeno che di cibo e gaming.

Biden’s ‘Suitable Jobs’ Remark Is Anti-Worker Political Pandering – Eater, 12 maggio

On Ideas –  From the Desk of Alicia Kennedy, 10 maggio

Le responsabilità dell’industria agroalimentare nella crisi climatica – Internazionale, 10 maggio

Agricoltura e allevamenti intensivi producono metano, causa di un quarto del riscaldamento globale – The Vision, 13 maggio

Books to Inspire Hunger and Thirst – The New York Times, 13 maggio

The Gatekeepers Who Get To Decide What Food Is “Disgusting” – The New Yorker, 10 maggio

Come cambia il cibo nel gaming: dalla cucina ai videogiochi (e viceversa) – Dissapore, 13 maggio

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