E così mi fa vedere questo CD, la copertina di questo CD. Fa prima una introduzione, un balletto, tre quarti coreografici di giro, un mezzo giro, tutto un giro del corpo, più giri, come quei cavatappi con le braccia aperte. Sta per stappare da tutta sé stessa la storia del suo viso in questa fotografia che diventò la copertina del suo CD.
Sta raccontando a mani nude, una sull’altra come una scatola chiusa che poi s’apre perché il coperchio, la mano sopra, è scorrevole, poi torna a chiudersi, la mano sopra va sotto, e la scatola ricomincia al contrario, poi lei la sfascia, allarga le braccia, ora l’una ora l’altra, con gesti da semina, poi mostra i palmi delle mani come dicesse fermi tutti, questa è la mia vita, poi una mano se ne va dietro la schiena, l’altra è offerta a una qualche figura invisibile che sta scendendo da un piedistallo, forse. Poi i capelli, con le dita da sotto in su li scosta dal collo, dalla nuca, dalla mascella, inclina il capo che scatta come per colpire di testa un palloncino.
Gli occhi al cielo, posso dire di aver visto gli occhi al cielo, assunti in cielo, vedo il significato degli occhi al cielo, dell’espressione “gli occhi al cielo”, che non è in verità il soffitto, che non è in verità nemmeno il cielo, è dove vanno a finire i palloncini dei sensi figurati.
E così mi fa vedere questo CD ma non ancora. Ci gira intorno, si avvicina e si allontana dal punto. Si avvicina e si allontana da parecchi punti della sua vita e di questa camera spaziosa, a casa sua. Sfiora anche un mazzo di certi fiori antichi, medievali mi ha detto, me lo ha detto prima, la prima cosa, la base principal- floreale, ci tiene: sono medievali questi fiori drammatici, grandi e aperti, rossi e famelici, e più piccolini, bianchi e tremanti, e rosmarino, basilico, fiori d’aglio dall’odore d’aglio, un mazzo simbolico, insomma.
Ha fatto lei questo mazzo e l’ha composto in un barattolo di pomodori, un barattolo di latta che aveva contenuto un chilo di pelati, lo leggo dall’etichetta, pomodori ‘Ortodoro’ tutto attaccato, però tenuto bene, anzi trattato con una resina trasparente, un fissante, non so, l’etichetta pare smaltata. All’interno, di tra i fusti del mazzo intravedo: è di un porpora antivegetativo.
La piccola bambola è la sua di anni fa, la sua da piccola, quando lo è stata, ha una collana al collo girata più volte, il ciondolo è un cuore di pietra di fiume, ha gli orecchini da grande ma appesi alle piccole mani, pure questi con due cuori a ciondolo, uno trafitto da una freccia incollata, l’altro infranto, un pezzo di cuore, persi gli altri chissà dove.
L’ha fatta santa, mi dice, lei ha fatto santa la bambola. Insomma dopo l’adolescenza, ma non subito, qualche anno dopo, in anni recenti, lei ha beatificato la bambola, l’ha santificata, le è parso che la cosa avesse non solo un senso ma anche una certa benefica influenza sulla sua vita sentimentale, parole sue. Non perché la piccola santa le predisponga incontri felici ma perché le rende sopportabile l’ebete faccia felice degli uomini innamorati. Uno sguardo alla bambola a cose fatte, un sospiro, e la vita continua senza l’ultimo amore ma senza nemmeno il rimpianto.
La piccola santa le testimonia questo: che gli amori numerosi tengono in vita quell’idea di un amore unico e immortale che si manifesta e si annuncia come una promessa in un capello, in un mignolo, in un lobo, in un ombelico, nella curvatura d’un glande, in un centimetro quadrato di ognuno dei tanti amori che non sono l’unico amore, che rispetto a un pelo, rispetto a un centimetro quadrato di pelle, è infinito e, seppure presente in ognuno di quelle piccole aree, quindi ovunque, è assente, perché l’assenza è una proprietà, se proprio vogliamo essere sintattici, dell’infinito presente. Non so se ho capito.
L’assenza della fine nel destino di quell’amore unico e assente è per lei la dimostrazione dell’esistenza infinita di quell’unico amore, quindi sempre presente. E non sta parlando di Dio.
Insomma, la sua bambola intercede tra lei e la porta verso la quale accompagna gli amori finiti. La bambola dà un’occhiata fuori, semmai stia arrivando o sia già in attesa, quasi col dito al campanello, l’amore infinito. Non c’è? La bambola torna sulla mensola come una portinaia sulla seggiola nella sua guardiola. La mensola è di quelle a una staffa sola, di legno, col piano a semicerchio, un mezzo vassoio, sul quale spesso sono serviti alla vista i santi.
Cioè, la bambola è animata? No, però funziona.
Le sistema la gonna come si fa quando basta il pensiero ma il tatto ha le sue piccole esigenze e allora con un’unghia, solo con un’unghia sfiora un cuoricino, che non ricordo quale. Quello che oscilla.
E così mi fa vedere questo CD, fa due passi all’indietro come la figurazione di uno svenimento controllato, due passi a mo’ d’esempio di come la memoria arretri tale e quale un venir meno, un venir meno all’oggi e, credo, anche al domani. Perché lei sta per ricordare, lo sento, sta per raccontarmi un episodio.
S’è accostata allo scaffale, solleva una mano, come le fauci di una gru le dita. Come il braccio di una gru il suo braccio dirige la mano verso un punto, là tra i CD nelle custodie tutte uguali, si vede dalle coste, dal colore che è lo stesso, dalle lettere del titolo, che non leggo, ma le vedo come linee, le stesse su ogni costa.
Come da un mazzo di elementari carte truccate, tutte con la stessa faccia, dove pesca pesca bene. Ciecamente, però guardando me, sfila questo CD tra i tanti in fila. E me lo mostra da lontano, vedi?
Vedo, e aspetto di sapere cosa. Si avvicina a me che sempre sono rimasto seduto sul divano. Vedo il suo viso sulla copertina.
Sai dove mi hanno fatto questa foto? La indica col mento mentre si accovaccia sedendosi sui talloni davanti a me. Non lo so. A Francoforte, all’aeroporto, ero appena atterrata (la vedo toccare terra senza l’aereo, dall’aria al suolo, continuando per abbrivo a camminare). Tiene il CD tra il pollice e l’indice di tutte e due le mani, in alto agli angoli. Sotto il CD le sue gambe turchesi, i gomiti sulle ginocchia dove le calze si fanno più chiare, la gonna scozzese è tanto meticolosa nelle righe e nei colori incrociati quanto è facile a sfuggire sulla coscia che appare di colore mare aperto.
«Questa foto… ero appena sbarcata (l’immagino scavalcare una murata di barca per via della gonna)… uscivo dal terminal (no, non ha detto tunnel)… qui non si vede ma c’era molta gente… vedi intorno, dietro… il grafico le ha sfocate, sono persone anche se sembrano solo colori, colori locali,… insomma, stavo uscendo… a un certo punto qualcuno mi chiama… ma non proprio mi chiama, fa il mio nome, strilla il mio nome… mi aveva riconosciuta… come cantante, dico… quand’è così sorrido… che altro posso fare? Sorrido… e subito dopo il nome sento…», le viene da piangere, incrocia le mani sul petto, il CD in una sola mano, lo spigolo di un vertice sulla spalla, come infilzato, accosta le gambe e poi, per equilibrarsi, le discosta, la mano senza CD corre al mio braccio, «… un verso, un… una pernacchia… e in quel momento è stata scattata la foto. Epico, no? È epico? Non ti pare epico questo mio sorriso ucciso?».
Spesso l’aspetto del mondo dipende dall’aspetto di un viso, e l’aspetto del mondo è più facile da descrivere.
Bellezza e terrore, penso, anzi no, lo vedo scritto. Dove? Che ne so. In cielo, sul soffitto che si gonfia di boria, si inarca accogliendo questa scritta luminosa. Le istallazioni sono spesso espansioni di due parole accostate.
«Dammi un bacio, un bacio vero», mi dice.
Mi sale addosso come il bradipo sull’albero delle cui foglie si nutre, lenta, una bellezza lenta che mi cola addosso, le ginocchia ai due lati del tronco, dell’albero e mio, affondano nei cuscini del divano e anch’io da seduto sprofondo e intanto sento che il CD tocca terra e la custodia s’apre. Con un braccio all’indietro si toglie le scarpe, e anche le scarpe sento cadere sul pavimento col rumore del passo di chi barcolla. Mi figuro le dita e i talloni, le trasparenze turchesi. Chiudo le palpebre come dicessi oddio, non posso fare altro.
Il primo bagnato che sento sul viso non so se sia delle labbra o degli occhi.