Il tedesco Christian Schmidt è stato nominato nuovo Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina. Dal primo agosto sostituirà l’austriaco Valentin Inzko, in carica dal 2009 e dimissionario, diventando l’ottava persona a ricoprire questa carica, introdotta con gli accordi di Dayton del 1995, che posero fine alle ostilità in ex Jugoslavia.
La nomina di Schmidt è stata decisa dagli ambasciatori del comitato direttivo del Consiglio per l’attuazione della pace, l’organo incaricato di supervisionare il processo di pace della Bosnia, composto da una quarantina di Stati e una ventina di osservatori, tra organizzazioni internazionali, enti statali bosniaci e altri Stati. Nel comitato direttivo siedono i rappresentanti di: Usa, Russia, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Canada, Giappone, Commissione europea, e Organizzazione per la cooperazione islamica (rappresentata dalla Turchia). La Russia ha approvato la nomina, ma sollevando svariate obiezioni. Da anni Mosca contesta la legittimità dell’istituzione dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante, sostenendo che renda la Bosnia un protettorato internazionale e non uno Stato sovrano. Secondo l’analista Jasmin Mujanović, la Russia potrebbe vendicarsi contestando aspramente l’azione della missione EUFOR, una delle poche missioni militari a guida Ue, dislocata in Bosnia dal 2004.
Schmidt è un parlamentare di lungo corso, entrato al Bundestag nel 1990 come deputato della Csu bavarese. Dal 2005 al 2013 ha servito come referente del parlamento al ministero della Difesa e dal 2014 al 2018 come ministro dell’Agricoltura della Germania.
Come suggerisce l’opposizione della Russia, la nomina di Schmidt è stata interpretata come una scelta di continuità, che permetterà a Berlino di avere un ruolo di primo piano in Bosnia. Schmidt è sostanzialmente chiamato ad tutelare l’eredità di Angela Merkel nella regione.
La Kanzlerin, non stupirà, aveva pianificato questa mossa con largo anticipo. Il nome di Schmidt aveva iniziato a circolare nei media bosniaci già alla fine dello scorso anno. Addirittura, già nel luglio del 2016 Merkel aveva inviato Schmidt, all’epoca ministro dell’Agricoltura nel suo governo, a trattare con Milorad Dodik, il rappresentante dei serbo-bosniaci, il baluardo dell’antioccidentalismo nei Balcani occidentali e demiurgo dell’autocrazia che oggi vige nella Repubblica serba, l’entità statale a maggioranza serba della Bosnia.
Proprio Dodik, l’uomo di Vladimir Putin in Bosnia, è stato il più feroce critico dell’operato dell’attuale Alto Rappresentante.
Il motivo è presto detto. La carica di Alto Rappresentante è comparabile a quella di un presidente della Repubblica, incarna l’unità dello Stato e dispone di speciali poteri di veto. Rappresenta il vertice dell’intricata struttura istituzionale che regge la Federazione bosniaca, uno dei sistemi amministrativi più complessi al mondo, formato da due entità statali, Repubblica serba e Federazione croato-musulmana, la seconda a sua volta divisa in dieci cantoni definiti su criteri etnici.
Da più di un decennio Dodik, con l’interessato beneplacito di Mosca, agisce per sabotare il funzionamento dello Stato bosniaco e per elevare la Repubblica serba allo status di paese effettivo, minacciando più volte di organizzare un referendum sulla possibilità di secessione. Queste intenzioni l’hanno portato spesso a cozzare con l’azione di Inzko.
Uno degli scontri più iconici lo scorso dicembre, quando a una tavola rotonda prima di una riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu Dodik ha attaccato duramente il diplomatico austriaco, definendolo un «mostro che collabora solo con i bosgnacchi di Sarajevo».
Inzko ha fornito la sua versione In un’intervista rilasciata a Radio Free Europe. Ha spiegato che la comunità internazionale ha gradualmente dedicato sempre meno attenzione al processo di pace in Bosnia. «Dodik, probabilmente, non vuole uno Stato. Non vuole cambiamenti positivi ed esige che ogni cosa sia eseguita secondo il suo gusto e le sue preferenze. Questo non può accadere: ci sono leggi e convenzioni internazionali che anche Dodik è chiamato a rispettare», ha dichiarato.
L’Ufficio dell’Alto Rappresentante è incaricato di monitorare l’attuazione e l’interpretazione finale degli aspetti civili degli accordi di Dayton. Deve lavorare con la popolazione e le istituzioni bosniache e con la comunità internazionale per fare in modo che la Bosnia diventi una democrazia pacifica e sostenibile e si integri in Ue e Nato.
L’istituzione ha un budget annuo di 5.3 milioni di euro ed è finanziata per il 54% dall’Ue, per il 22% dagli Usa, per il 10% dal Giappone, per il 4% dalla Russia, per il 3% dal Canada, per il 2.5 dall’Organizzazione per la cooperazione islamica.
Nel 1997 le furono garantiti i cosiddetti “poteri di Bonn”, ovvero la possibilità di proporre e modificare le leggi e la costituzione e sostituire rappresentanti delle istituzioni. Prerogative che avrebbero dovuto spingere d’imperio l’adozione di alcuni provvedimenti non condivisi dai tre gruppi nazionali principali (bosgnacchi, serbi e croati).
Negli anni gli Alti rappresentanti sono intervenuti per dirimere questioni come l’adozione della bandiera e dell’inno della Federazione bosniaca, le norme sul diritto di cittadinanza e la legge elettorale, il funzionamento del Consiglio dei ministri e lo statuto della città di Mostar. In alcuni casi ha interdetto alcuni rappresentanti politici dall’esercizio delle loro funzioni, dopo aver giudicato alcuni dei loro atti incostituzionali.
Tra 2007 e 2011 la carica di Alto rappresentante era stata accorpata a quella di Rappresentante speciale Ue per la Bosnia Erzegovina, ma questa prassi è stata in seguito abbandonata.
La parabola di questa istituzione, introdotta negli anni ’90 con un largo sostegno della comunità internazionale e gradualmente ritrovatasi sempre più sprovvista priva di legittimità reale, è parallela all’evoluzione del contesto geopolitico dalla fine della Guerra fredda. Questa carica ha potuto esercitare una funzione incisiva esclusivamente fin quando ha retto il sistema multilaterale e quindi la sua azione non veniva percepita come faziosa e schierata, da parte di attori locali ed esterni. Oggi questo consenso trasversale non esiste più, nemmeno in Bosnia