Successo parzialePerché la vittoria di Nikol Pashinyan rischia di bloccare l’Armenia

L’attuale primo ministro armeno ha ottenuto alle ultime elezioni il 54% dei voti e una solida maggioranza parlamentare. Ma il mandato sarà quasi interamente assorbito dall’impegno dei negoziati con l’Azerbaijan, dal rapporto con la Russia e dal duro contrasto con le forze di opposizione che inquina le dinamiche interne

(Mikhail Klimentyev, Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP)

Nikol Pashinyan l’ha spuntata ancora, l’attuale primo ministro armeno, che in tre anni ha guidato una rivoluzione, affrontato le conseguenze di una debacle militare e respinto un tentato golpe, ieri ha incassato una schiacciante vittoria elettorale che grazie al 54% dei voti garantisce alla sua coalizione una solida maggioranza parlamentare.

Un risultato che poteva sembrare logico visto il consenso di cui il leader ha goduto in questi ultimi tre anni, ma che alla luce di una campagna elettorale in cui tutta l’opposizione ha cercato di addossargli le responsabilità della disfatta militare in Nagorno Karabakh, sembrava quasi impossibile. All’annuncio ufficiale del risultato il primo ministro ha chiamato via social tutti i suoi supporter in piazza, per celebrare con il suo popolo il suo nuovo “mandato d’acciaio”. Il rapporto diretto con la piazza infatti costituisce il cuore della sua azione politica e la caratteristica distintiva della sua leadership.  

Contro Pashinyan era sceso in campo tutto il passato recente della storia armena. A sfidarlo infatti, in una combinazione elettorale inedita, c’erano tutti gli ex capi di stato della giovane repubblica post sovietica, dall’indipendenza ad oggi: Robert Kocharyan, Serzh Sargsyan e Levon Ter-Petrosyan, oltre ad un’altra dozzina di partiti e piattaforme politiche differenti, uniti principalmente dal desiderio di far pagare a Pashinyan il prezzo della sconfitta militare.

Unico a tallonarlo nei sondaggi però era Robert Kocharyan, che oltre ad essere stato il secondo presidente della repubblica armena fu nel 1994 il primo presidente della autoproclamata Repubblica del Nagorno Karabakh. Dietro al vecchio lupo d’apparato di formazione sovietica infatti si erano radunate tutte quelle forze politiche che Pashinyan e la rivoluzione di velluto del 2018 avevano disarcionato dal potere e che speravano di riprendere il controllo dello Stato.

In campagna elettorale praticamente non si è parlato d’altro che delle responsabilità e delle conseguenze del conflitto con l’Azerbaijan. Gli accordi di “cessate il fuoco” mediati dalla Russia e siglati da Pashinyan sono stati additati come una capitolazione dai suoi avversari.

«Un governo che rappresenta la sconfitta non può essere un buon negoziatore» ha tuonato Kocharyan più volte, aggiungendo che «non è possibile negoziare con il nemico in ginocchio». A gettare ulteriore benzina sul fuoco si è aggiunto poi il delicato tema del ritorno dei prigionieri di guerra armeni. In uno scambio surreale di accuse l’altro ex presidente, Serzh Sargsyan, ha suggerito a Pashinyan di «scambiare suo figlio con 25 soldati detenuti in l’Azerbaijan».

Pashinyan, che non è uomo da chiamarsi fuori da uno scambio di accuse, ha colto l’occasione per rispondere di petto: «Sono d’accordo, e lo dichiaro ufficialmente: offro mio figlio in cambio di tutti i nostri prigionieri, e autorizzo Sargsyan e Kocharian a occuparsi della cosa in quanto specialisti nel traffico di esseri umani. Magari riusciranno anche a farsi due soldi».

«Con una campagna elettorale così non c’è stato spazio per argomenti attinenti alla politica o all’economia del Paese. Onestamente non c’è stato spazio nemmeno per una discussione seria sulle conseguenze del conflitto, le opposizioni infatti hanno accusano e basta, ma nessuna è stata in grado di offrire una narrativa alternativa, o di spiegare cosa avrebbero fatto al posto di Pashinyan» commenta il deputato ed analista politico Mikayel Zolyan. I cittadini Armeni infatti hanno scelto di dare ancora una volta fiducia a Pashinyan dando così indirettamente anche il loro assenso agli accordi di pace da lui siglati.

Sul dibattito elettorale ha pesato molto anche la propaganda martellante del presidente azero che non ha nascosto la volontà di umiliare il nemico sconfitto. Aliyev nell’ultimo mese è comparso all’inaugurazione del Parco dei trofei militari a Baku, dove si staglia un corridoio di elmetti abbandonati da soldati armeni deceduti o in fuga attraverso cui si accede ad un piazzale dove decine di mezzi armeni sequestrati sono messi in mostra assieme a statue di cera di soldati armeni sfigurati dalla paura. Ma il vero colpo Aliyev l’ha assestato ad un settimana dal voto invitando a Shusha, la città sottratta agli armeni e simbolo per gli azeri della loro vittoria, l’amico e alleato Racep Erdogan. A Shusha settimana scorsa i presidenti di Turchia e Azerbaijan hanno firmato un accordo tra le due nazioni di azione congiunta in caso di attacco militare e mandato un chiaro messaggio a tutti coloro che a Yerevan pensavo di sfruttare il desiderio di rivincita in chiave elettorale.

Altra presenza ingombrante nel dibattito elettorale è stato il rapporto con Mosca. Ufficialmente l’offerta politica di entrambi i candidati principali era radicalmente pro-russa, e non potrebbe essere stato altrimenti data la dipendenza economica e militare armena da Mosca. Tuttavia tra i supporter di Pashinyan aumenta la rabbia nei confronti del grande alleato che invece di sostenere Yerevan in modo deciso durante il conflitto con l’Azerbaijan si è limitato a imporre un cessate il fuoco dopo aver lasciato le truppe azere libere di avanzare per quasi un mese.

«Colpa delle velleità europeiste di Pashinyan che hanno incrinato la relazione con Mosca», accusavano i supporter di Kocharyan. Ma la scelta del leader dell’opposizione di apparire sui giornali armeni raffigurato in un sorprendente numero di foto diverse a fianco di Vladimir Putin, per testimoniare la loro lunga amicizia, sembrerebbe non aver dato il risultato sperato.

Pashinyan dunque vince ancora e si dimostra un leader in sintonia con il suo popolo ma vince la guida di un mandato che sarà quasi interamente assorbito dall’impegno di guidare il paese in un negoziato tutto in salita che lo porterà probabilmente a dover mettere la faccia su ulteriori umiliazioni. È proprio sul logoramento di Pashinyan che scommettono tutti i suoi nemici, a Yerevan a Mosca e Baku. Ma il primo ministro armeno ha dimostrato di avere sette vite e se avrà abilità e fortuna, passate le forche caudine dei negoziati, potrebbe tornare con forza rinnovata al suo programma di riforma interna e rendere le fondamenta della sua nuova Armenia più solide che mai.

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