Il dito, la luna, gli stoltiDalla biodinamica a Eataly, siamo abituati a discutere concentrandoci sulle cose più futili

Ci affanniamo intorno all’indignazione da tastiera e intanto ci sfugge la discussione della PAC e non è una novità, capita sempre più spesso e soprattutto online, di perdere il vero focus del discorso. Ma per fortuna c’è Burp! a riportarci sulla retta via

In qualche modo siamo tutti diventati specialisti nel guardare il dito che indica la luna, o comunque nel farci distrarre da elementi di contorno o di colore, anche quando la discussione richiederebbe maggiore serietà. Ne è dimostrazione il dibattito sul biodinamico, scaduto subito a pura perculatio dei tratti mistico-esoterici di tale approccio agronomico. Mentre ci scannavamo tra chi annunciava il boicottaggio di Propaganda Live, colpevole di aver ospitato la senatrice Elena Cattaneo, e chi invece celebrava la vittoria dello scientismo più intransigente, in seno all’Unione Europea andava in scena una delle discussioni più importanti sul futuro dei nostri ecosistemi e dell’agricoltura, quella sulla PAC.

Lo so, non sono queste discussioni che “scaldano”, ma sono ugualmente passaggi centrali, capaci di rimodellare il panorama ecologico-produttivo di intere nazioni, perlomeno sul medio-lungo periodo. E quindi piuttosto che continuare a percularci a vicenda intorno alla biodinamica avremmo potuto spendere meglio il nostro tempo appassionandoci a quest’altro dibattito, che Dario De Marco ha ricostruito per bene per Dissapore in Agricoltura: lo stallo dell’UE, divisa tra green e greenwashed.

Nota a margine: nei giorni scorsi mentre facevo notare che il valore della biodinamica non risiede affatto nel suo sistema di credenze ma nel suo avere risvolti positivi per la vitalità degli ecosistemi, e che comunque la stessa perculatio si potrebbe applicare a chi professa la propria fede in ambito religioso, un conoscente si è impegnato in una filippica contro il mio approccio agnostico, scrivendo: «Che un agnostico possa vacillare mi pare normale: non prende posizione, è un codardo che pensa “non si sa mai, meglio non negare la religione, che se poi viene fuori che me so’ sbagliato forse mi ammettono in paradiso, magari con periodo di prova”. L’ateo è molto più coerente, è pronto a scommettere, strappa il biglietto celeste e lo butta via, non ha bisogno di un’assicurazione morte».

Peccato che un qualsiasi filosofo della scienza un po’ scafato potrebbe insegnarci come l’agnosticismo sia in fondo l’approccio più sensato in campo scientifico («so di non sapere», diceva quello là), mentre l’ateismo rischi di diventare una questione di fede acritica («è pronto a scommettere»!), di accettazione pregiudiziale di verità che potrebbero anche essere smentibili.

A tale proposito vale la pena soffermarsi sulla lettura di Parole nel tempo: biologico di Pietro Stara, che saggiamente e con fare agnostico schiva la discussione sul biodinamico per ricordarci da dove arriva il termine biologico, a partire dalle sue origini in lingua inglese (organic): un modo indiretto e intelligente per ricordarci che si parla pur sempre di agricoltura rigenerativa e sostenibile.

A proposito di gente che guarda il dito che indica la luna, sulla newsletter Vittles è uscito un articolo di Sean Wyer dall’evocativo titolo Italy isn’t Eataly. Rispetto al tema Eataly, di nuovo, dalle nostre parti la tendenza è sempre stata quella di discutere di: aperture e inaugurazioni, successo/insuccesso economico, simpatia/antipatia del fondatore, presenza o meno tra gli scaffali di prodotti industriali, e così via. Salvo pochissimi casi isolati, nessuno si è mai concentrato su una riflessione più ampia e profonda, direi di natura sociologica.

Ci voleva uno sguardo “esterno” per partorirne una degna di nota come quella di Wyer, che partendo dall’inaugurazione dell’ultimo negozio di Farinetti & Co. a Londra prova a ragionare su quale immagine dell’Italia restituisca il modello Eataly, e in particolare sul suo tentativo pieno di contraddizioni di rappresentare in senso univoco e unitario la cucina italiana.

In conclusione segnalo altri due articoli su temi diversi, ma comunque degni di nota. Su Eater Jaya Saxena ha pubblicato Beer Is So Gay, in cui racconta come alcuni brand della birra stiano cercando di dare spazio al mondo queer, mentre su GrubStreet Rachel Sugar con In Praise of Small Menus racconta la sua predilezione per i menu “ristretti”, quelli che lasciano una scelta molto limitata al cliente del ristorante.

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