La realtà è sceneggiatrice privilegiata: le sue coincidenze non possiamo mai liquidarle come forzate o stucchevoli. Se una scena d’un film o d’una serie m’avessero spiegato quanto poco abbiamo imparato da un avvenimento, e quelle scene fossero state ambientate proprio nell’anniversario di quell’avvenimento, avrei sbuffato. Ma, quando succede nella realtà, che posso fare se non annuire fino a slogarmi il collo?
Alfredo Rampi (da lì e per sempre: Alfredino) moriva in un pozzo di Vermicino quarant’anni e un giorno fa. Aveva sei anni, e tutta Italia lo stava guardando. Cioè, non lui: stava guardando il pozzo, la madre disperata, Pertini ridondante, i programmi televisivi che si avvicendavano inventando l’all news molto prima che l’all news venisse inventata, nei tre giorni più lunghi della televisione italiana.
Tutto questo lo sapete: se c’eravate, perché c’eravate; se non c’eravate, perché il quarantennale di Vermicino è stato raccontato da molti miei coetanei in questi giorni: siamo la generazione che ha inventato la nostalgia, anche delle cose orribili, specialmente delle cose collettive.
Vermicino è stato per noialtri piccoli quel che lo sbarco sulla Luna era stato per gli americani della generazione precedente: il nostro «ti ricordi di te quando?» (poi sarebbero venuti Kurt Cobain, l’11 settembre, e tutti gli altri «ora vi parlo di me in occasione del tal anniversario d’un evento durante il quale ero davanti alla tv o sotto la doccia o dal tabaccaio, ma mi racconterò comunque in toni epici»).
In uno sceneggiato televisivo americano di fine secolo, un dirigente politico diceva che i numeri non mentono, e una sondaggista rispondeva che i numeri mentono continuamente. Per esempio quando – spiegava ammiccando all’allora recente questione Clinton/Lewinsky – il pubblico dice di non poterne più di notizie sul tal scandalo sessuale, ma le vendite di qualunque giornale lo metta in copertina s’impennano.
Vermicino è il giornale con in copertina la notizia che diciamo di non voler sapere. Vermicino è la prova che non siamo capaci di non rallentare se, in autostrada, vediamo un incidente. Certo, poi abbiamo riempito di «empatia» il nostro lessico e ora ci raccontiamo che è per quello che stavamo davanti alla tv, ma no: era perché eravamo umani, cioè curiosi, e perché guardare le disgrazie degli altri – specie senza pagare il biglietto – ci ha sempre fatto sembrare più sopportabili le nostre.
Guardavamo i soccorritori attorno a un pozzo con lo stesso spirito con cui guardavamo “Anche i ricchi piangono”, con lo stesso spirito con cui abbiamo sempre guardato la cronaca nera, con lo stesso spirito con cui in moltissimi, sabato, avranno cliccato sul video di Christian Eriksen che si accasciava durante una partita degli Europei.
Era il 12 giugno, eravamo in pieno quarantennale di Vermicino, uno dei giorni in cui Alfredo Rampi era nel pozzo, ed è un esercizio interessante immaginare i moralisti con uso di connessione wifi andare in giro per le case degli italiani del 1981 a dir loro quanto fanno schifo. A dirlo ai loro stessi piccini o ai loro genitori, così come sabato lo dicevano con raccapriccio ai social del Corriere, che aveva pubblicato il video del calciatore cui si fermava il cuore, e veniva perciò compattamente insultato da consumatori che la pornografia vogliono guardarla di nascosto e scandalizzarsene in pubblico.
Ma l’avevate visto già tutti, la partita era in diretta, non è mica un malore nascosto che i giornalisti cattivi siano andati a spiare in casa. Che c’entra, è speculazione, è sfruttamento del dolore, è uno schifo, emoji piangenti, emoji furibonde. Ma quindi il filmato del cervello di Kennedy che schizza sui sedili della macchina va secretato? Che c’entra, emoji indignate, emoji contrite.
In questi tredici anni di Facebook, non c’è stato un caso di cronaca nera che non sia stato seguito da polemiche contro i giornali che, marrani, avevano preso da una bacheca privata (per così dire) le foto della vittima. Ogni volta mi ricordo di quando Natalia Aspesi mi raccontò la sua vita da cronista di nera nel Novecento: il suo andare a casa della madre della vittima, il suo piangere assieme alla poverina e poi, mentre quella le singhiozzava su una spalla, sfilare una foto del defunto da una cornice.
Ogni volta penso che sarebbe bello se tutti leggessero “Illusioni perdute”, ma – senza stare a pretendere un Balzac sul comodino d’ogni possessore di smartphone – sarebbe sufficiente rendersi conto che tutto ciò che riteniamo cascame del declino dell’Occidente e della smania di visualizzazioni e cuoricini era già così centocinquant’anni prima.
Meglio che non lo leggano, tutto sommato: ne trarrebbero la morale che bisogna restare puri e scrivere sonetti; cioè: essere com’è il Lucien degli inizi, mica sporcarsi con quel «luogo di perdizione» che sono le redazioni (che, se erano tali a metà dell’Ottocento, figuriamoci oggi, signora mia).
Meglio che non scoprano mai che la cronaca nera esisteva anche prima dei social, o che anche nel Novecento era necessario procurarsi foto da pubblicare, e che raccontare gli orrori non è mai stata una passeggiata di salute.
Non le vogliamo perdere, le nostre illusioni. Custodiamo come preziosissimo il convincimento che il male del mondo sia cominciato quando abbiamo potuto pigiare like o non like, quando abbiamo iniziato a mettere faccette arrabbiate a commento, e a non fargliela passare liscia, all’informazione cattiva. «Al tempo dell’imperatore, signore, queste rivendite di cartaccia non erano conosciute» – figuriamoci la loro involuzione digitale, santo cielo.
Per fortuna un Black Mirror italiano non esiste, sennò sullo schermo d’un Vermicino ambientato oggidì ci sarebbero faccette piangenti, giacché tutti devono sapere che noi la tragedia la guardiamo sì, ma mica morbosamente, mica tollerando che a margine del collasso del calciatore ci sia la pubblicità: siam mica spettatori inattrezzati delle dirette del Novecento, noialtri; mica gentaglia uscita da un Balzac. Noi siamo quelli che, prima ancora del segno zodiacale, dichiarano la loro predisposizione all’empatia; quelli che si scandalizzano per gli autoscatti con sfondo di naufragio o di camera a gas; quelli che le altrui sfighe le rimirano di nascosto, e non prima d’esserci pubblicamente contriti per i familiari e per il destino cinico e baro, ed enfaticamente indignati che le immagini che bramiamo in privato vengano rimirate dal pubblico.