Questo non è un articolo sui libri di Teresa Ciabatti (non li ho letti). Questo non è neppure un articolo su Teresa Ciabatti (non la conosco). Questo è un articolo sulla più imbarazzante debolezza degli umani, quella su cui Zuckerberg ha fatto i miliardi: la smania d’amicizia.
L’essere umano vuol essere amico degli sconosciuti: il cognato del cugino del portiere cui mette like su Facebook, o i famosi che commenta su Instagram in toni che una volta avremmo riservato ai compagni di scuola. E, poiché dato un virus ne arriveranno presto varianti più gravi, ora l’essere umano vuol essere amico anche dei personaggi di fantasia: se non mi vien voglia d’andare a cena con la protagonista, perché dovrei leggere questo romanzo? Abitiamo l’epoca in cui Delitto e castigo andrebbe al macero: chi mai è così fesso da voler fare una partita a paddle con Raskolnikov?
Due anni fa è uscito in Italia Il mio anno di riposo e oblio, il miglior libro di Ottessa Moshfegh. La protagonista è una che non vuole i coglioni rotti, e ancora oggi ogni tanto leggo in giro qualcuno che si lamenta: gli avevano detto che questo romanzo era tanto bello, ma come si fa a passare del tempo con una protagonista così odiosa?
Ogni volta mi torna in mente una produttrice che anni fa mi bocciò una sceneggiatura con l’obiezione «Non puoi fare una protagonista troppo stronza». Ancora aspetto che risponda alla mia successiva domanda. Era: «E Rossella O’Hara?».
Due anni fa la Moshfegh viene a Milano a promuovere il libro, e io vado negli uffici di Feltrinelli a incontrarla. Tra le sue interviste americane che avevo letto – tutte interviste in cui era odiosissima, arrogantissima, stupendissima – ce n’era una in cui diceva che il suo romanzo preferito era Lolita.
Giacché stavo lavorando a un saggio sull’indicibile, gliene chiedo conto: Lolita oggi non lo pubblicherebbero mai, no?
Lei risponde che, forse, solo se fosse scritto da una donna, e che è giusto così, e che sì, è un gran romanzo ma fa anche schifo. (All’obiezione «ma è il suo romanzo preferito» ha la svegliezza di rispondere che infatti anche lei scrive romanzi che fanno schifo).
Due anni dopo, per il suo numero estivo, la rivista newyorkese Bookforum ha chiesto a un po’ di scrittori di dire qual è il libro «risky» (rischioso? controverso? pericoloso? azzardato?) che vorrebbero leggere ora. Traduco la risposta della Moshfegh.
«Vorrei che i futuri romanzieri rifiutassero il compito di scrivere per migliorare la società. L’arte non è informazione. Un romanzo non è un’edizione straordinaria o carne da Twitter o materia con cui i giornalisti possano fare le loro brave generalizzazioni sulla cultura. Un romanzo non è BuzzFeed o la National Public Radio o Instagram e neppure Hollywood. Cerchiamo d’essere chiari su questo: un romanzo è un’opera d’arte letteraria il cui scopo è espandere la coscienza. Abbiamo bisogno di romanzi che abitino un universo amorale, che trascendano i programmi politici descritti dai social network. C’è una ragione se siamo in possesso dell’immaginazione. Romanzi come American Psycho e Lolita non hanno avvelenato la cultura: sono state le industrie sfruttatrici e le multinazionali assassine a farlo. Abbiamo bisogno di personaggi di romanzi liberi d’essere oscuri e sbagliati: altrimenti, come faremo a capire noi stessi?».
Il giorno in cui ho letto queste perlopiù illuminate righe, ho detto a un amico qualcosa tipo: ma a me non aveva detto che oggi sarebbe giusto non pubblicare Lolita, visto che Nabokov è un uomo? Lui mi ha risposto qualcosa tipo: si vede che il gioco s’è fatto duro.
Aveva ragione lui. Il gioco s’è fatto così duro che, quello stesso giorno, un’autrice di romanzi estivi, Elin Hilderbrand, si è dovuta scusare e ha dovuto promettere che le righe verranno espunte dalle ristampe allorché alcuni commentatori di Instagram si sono indignati per un dialogo in cui una ragazzina suggerisce all’altra di nascondersi in soffitta per l’estate, e l’altra chiede «come Anna Frank?».
Antisemitismo, puntesclamativo. Taffy Brodesser-Akner, autrice di Fleishman a pezzi (Einaudi) ed ebrea, ha commentato neanche troppo scherzosamente che i personaggi della Hilderbrand sono di Nantucket: se non sono antisemiti lì, dove? (Altra obiezione sensata: il dialogo è accurato, giacché nelle scuole americane si legge Anna Frank e non Jane Eyre, e quindi «nascosta in soffitta» ti evoca ciò che a quell’età conosci).
Il punto in cui anche le vestali della suscettibilità diventano sacerdotesse della libertà d’espressione è quello in cui un’autrice deve scusarsi perché un personaggio di fantasia dice cose che lei non direbbe a cena. Qualcuno ha mai prodotto letteratura interessante creando personaggi con cui vorremmo fare amicizia? (A tal proposito consiglio la lettura di Contro l’impegno, di Walter Siti, edito da Rizzoli).
Se siete di quelli (vi conosco, polli) che pensano tutto debba essere dicibile ma l’antisemitismo no, neanche per battuta, neanche per finzione letteraria, vi farà piacere sapere che il meccanismo (ben riassunto da Olivia Nuzzi, miglior cronista politica d’America e raro caso di millennial sveglia: finché gli editori andranno dietro agli scandali da social, gli autori si censureranno sempre) non ha i vostri confini ideologici.
Negli stessi giorni, i social s’indignavano per un passaggio d’un altro romanzo rosa, del 2019 (ma i social s’indignano quando qualcuno posta lo screenshot, mica possono perder tempo a leggere romanzi). In Rosso, bianco e sangue blu il presidente degli Stati Uniti sbuffa di dover telefonare a Nethanyau; il che – secondo gente che ha un account Twitter e che i giornali prontamente riprendono dando alle chiacchiere da bar dignità d’opinione critica e terrorizzando le case editrici – significa una gamma di orribilità, da «normalizzare il genocidio» a «normalizzare l’occupazione della Palestina». Anche in questo caso l’autrice ha promesso di togliere dalle ristampe le righe di cui gli attenti lettori si sono accorti con due anni di ritardo. Si sa che la letteratura si fa compiacendo i lettori.
Naturalmente non è affatto detto che la ragione per cui il libro di Teresa Ciabatti non è entrato nella cinquina dello Strega sia che la sua voce narrante è una tizia odiosa.
Potrebbe essere, come si diceva quest’inverno, che l’intenzione di fare di quest’edizione uno «Strega delle donne» si fosse infranta contro tre libri scritti sì da donne ma bruttissimi (non posso dire se sia vero: non li ho letti), e che quindi quelli del premio abbiano supplicato Emanuele Trevi di concorrere e salvarli dal dover premiare un romanzo indegno.
Potrebbe dipendere dal fatto che per anni abbiamo sentito dire «Dice la Ciabatti che sta scrivendo il libro con cui vincerà lo Strega», e tutto perdoniamo a una donna ma non l’ambizione: ci piace credere a quelle che dicono che sono diventate miss Italia perché accompagnavano l’amica alle selezioni.
Spero però non sia la goccia che convince chi fa romanzi (ma pure film, ma pure saggi, ma pure canzoni) di dover, se vuole vincere premi importanti, compiacere il pubblico, creare personaggi amabili, dare ai lettori ciò che i lettori credono di volere. Oltre a uccidere l’idea stessa di letteratura, è pure un metodo che non funziona. E la ragione per cui lo so è che esiste il precedente dei giornali, che hanno smesso di vendere quando hanno iniziato a rincorrere gli umori dei lettori. I quali, se vogliono roba che faccia loro da specchio e dia loro ragione, non hanno bisogno di comprare né libri né giornali: hanno, gratis, in tasca Facebook, e Instagram, e persino le chat dei genitori.