Nonostante la relativa moltiplicazione degli eventi dedicati alla Conferenza sul futuro dell’Europa, il dibattito è rimasto per ora chiuso agli addetti ai lavori e il cantiere dell’Unione europea sembra destinato soprattutto a loro, considerando fra gli addetti ai lavori i rappresentanti delle reti della società civile che fanno parte degli ambienti di Bruxelles che ruotano da anni intorno alle istituzioni europee.
Se si esaminano le modalità della partecipazione delle cittadine e dei cittadini alla Conferenza e alle sue strutture parallele e cioè la Piattaforma Digitale e i Panel transnazionali, ci rendiamo conto delle differenze sostanziali fra il metodo per ora applicato alla maratona europea e i metodi usati nei Paesi Bassi, in Belgio, in Irlanda, in Islanda e in Francia per coinvolgere le opinioni pubbliche nazionali che, in parte, si sono trasformati in momenti deliberativi.
Vi invito a valutare in primo luogo l’impatto dell’apertura del dibattito sul futuro dell’Europa sulle opinioni pubbliche nazionali – senza parlare dell’opinione pubblica europea auspicabilmente in statu nascendi – attraverso i dati della Piattaforma digitale lanciata solennemente dai tre copresidenti dell’executive board il 19 aprile 2021.
In due mesi di attività la Piattaforma – che è considerata il cuore della Conferenza con l’obiettivo di offrire «l’opportunità di esprimersi, raccontare l’Europa in cui si vorrebbe vivere e contribuire a plasmare il nostro futuro» – è stata raggiunta da poco più di diciassettemila cittadine e cittadini (fra i quali un numero irrisorio di associazioni) e cioè meno di trecento cittadini al giorno con un trend di crescita che tende a diminuire se non ad arrestarsi.
Se questo ritmo fosse mantenuto e se non saranno assunte iniziative forti, arriveremo alla fine della Conferenza con meno di centomila partecipanti, una cifra da paragonare – si parva licet – ai duecentomila cittadini che reagirono al Libro Bianco della Commissione Juncker sul futuro dell’Europa diffuso in un’altra epoca della storia dell’integrazione europea e, soprattutto, al milione di firme che sono richieste dal Trattato di Lisbona affinché venga presa in considerazione una iniziativa di cittadini europei.
Aggiungiamo alla lista dei partecipanti le 4500 idee, i 9000 commenti, i mille eventi e le ventiseimila approvazioni e avremo un quadro chiaro della necessità ed urgenza di riflettere ora in Italia e poi nelle reti a cui ciascuno di noi appartiene sulle politiche di comunicazione, di informazione e di sensibilizzazione della sfera pubblica e della sfera privata per creare quello spazio aperto immaginato da Habermas dove possa essere finalmente avviato un ampio dibattito sul futuro dell’Europa.
Non sappiamo – e nessuno apparentemente si è chiesto in Italia – quali criteri hanno condotto il governo italiano a scegliere la cittadina o il cittadino (la scelta è stata coperta da una spessa coltre di nebbia) che ci rappresenta oggi nell’incontro di Lisbona dei ventisette prescelti che si riuniranno – dialogando in streaming – i tre copresidenti dell’executive board sapendo che il loro ruolo non sarà quello di fornire in centoventi minuti (quattro minuti a testa) le loro idee sul futuro dell’Europa ma sulle modalità che i loro governi hanno immaginato per comunicare, informare e sensibilizzare le opinioni pubbliche sui dieci temi di dibattito inseriti nella “Dichiarazione Comune” del 10 marzo 2021.
Per chi si occupa di comunicazione è evidente che il comunicare è strettamente legato sia all’oggetto della comunicazione (che riguarda sia le policies che le politics) che all’obiettivo che si vuole raggiungere in termini di sensibilizzazione e di partecipazione con l’atto del comunicare.
Voi sapete bene che il Movimento europeo considera da tempo che – dopo molti anni dalla firma del Trattato di Lisbona considerato a quel tempo da Angela Merkel come la costituzione europea per i successivi cinquanta anni – sia necessario riaprire il cantiere dell’Unione europea sia in termini di policies che di politics nella prospettiva di un aggiornamento dei trattati, un esercizio a cui si sono dedicate le istituzioni europee e nazionali (e cioè gli addetti ai lavori) con una cadenza di più o meno sei anni dall’Atto Unico fino al Trattato di Lisbona.
In termini di policies e prendendo come base di partenza i nove argomenti della Piattaforma digitale, è evidente che occorre aggiornare le politiche comuni della salute, dell’economia e della giustizia sociale, del ruolo dell’UE nel mondo, dello stato di diritto, della trasformazione digitale e della migrazione per renderle coerenti con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile e della transizione ecologica, della democrazia europea (o meglio delle dimensioni complementari delle democrazie: rappresentativa, partecipativa, paritaria e di prossimità) e dell’identità culturale o meglio del sentimento di appartenenza a una comune identità di cui fanno parte le politiche per i giovani e per l’educazione.
L’aggiornamento delle policies riguarda nello stesso tempo il contenuto delle politiche che sono state attuate finora o che fanno parte delle priorità della Commissione Von der Leyen (archiviando l’inutile “agenda strategica” adottata dal Consiglio europeo nel giugno 2019) sia il tema della distribuzione delle competenze esclusive, condivise o di sostegno fra l’Unione europea e gli Stati membri che è una questione di politics.
Le cittadine e i cittadini dovrebbero chiedersi e dirci quale dovrebbe essere per loro in una futura Unione europea il contenuto delle policies e quali politics saranno necessarie per attuarle.
Sappiamo anche che alcune policies sono state escluse o non sono state esplicitamente previste sulla Piattaforma digitale e che riguardano questioni essenziali per l’aggiornamento delle policies come il
completamento dell’Unione economica e monetaria con la modifica degli strumenti di governance adottati dal 2012 in poi e la capacità fiscale dell’Unione europea insieme al tema del debito pubblico europeo e delle risorse per sostenerlo così come non compaiono fra gli argomenti alcune politics come le prospettive dell’ampliamento dell’Unione europea ai Balcani che comprende il tema dei suoi confini politici che fu affrontato senza seguito dalla Commissione Prodi nella sua proposta di una “politica di prossimità”, la sua autonomia strategica nel settore della difesa e il tema dell’integrazione differenziata.
Su tutte queste questioni aleggia il fantasma della revisione dei trattati che il Parlamento europeo non ha potuto inserire nella “Dichiarazione Comune” anche se la sua tesi è che il fatto che non compaia non esclude che essa possa essere sollevata durante i lavori della Conferenza lasciando impregiudicati i contenuti del progetto di revisione, il metodo e l’agenda per portarla a termine.
Pudicamente, il fantasma è evocato qua e là da chi mette sul tavolo la questione del superamento del voto all’unanimità nel Consiglio europeo (che si è auto-attribuito in questi anni poteri di decisione non previsti dal Trattato ampliando in tal modo le aree sottoposte al voto all’unanimità) e nel Consiglio dell’Unione.
Chi mette sul tavolo questa questione sa bene che l’esperienza ha mostrato che essa non può essere affrontata e risolta né applicando le “clausole della passerella” – che richiedono una decisione unanime del Consiglio europeo – né attraverso il metodo delle cooperazioni rafforzate quasi praticamente inapplicate da quando sono state introdotte per la prima volta nel Trattato di Amsterdam.
L’unica strada praticabile è quella della revisione dei trattati sapendo che non ci si può limitare a eliminare qua e là il voto all’unanimità ma che occorre creare un sistema di pesi e contrappesi (check and balance) che implica una revisione di tutto il sistema di politics coinvolgendo i poteri della Commissione europea, del Parlamento europeo, dei parlamenti nazionali e riflettendo anche sul ruolo della BCE e della Corte di Giustizia insieme ai rapporti fra l’area dell’Euro e quella del mercato unico.
Sappiamo infine che il tema delle politics (inadeguate e inefficienti) deve essere presentato alle opinioni pubbliche come una delle cause dei costi della non-Europa, che ci sono articoli dei trattati che -a causa di esse – sono rimasti inapplicati e che ce ne sono altri che sono stati disapplicati o che sono stati applicati con una interpretazione contraria ai principi di fondo dei trattati e che la strada per ritornare alla logica dell’integrazione europea è quella di aggiornare le policies e cambiare le politcs nella prospettiva di una maggiore integrazione che noi riteniamo debba essere di natura federale.