Critical Race TheoryPrima dei bestseller, il libro che divulgò il mito del razzismo eterno

Di fronte a un dibattito sempre più infuocato e tribalizzato, è bene tornare indietro di qualche decennio e ripercorrere le origini di un movimento dalle idee discutibili. A partire dal testo del suo fondatore

AP Photo/Jacqueline Larma

Oltre a essere stato l’anno della pandemia, il 2020 è stato anche il momento in cui un’idea, fino a quel momento confinata negli ambiti (sempre meno ristretti) dell’accademia americana, è diventata popolare e mainstream. È il caso della Critical Race Theory, creatura degli anni ’70 e ’80, nata dagli scritti di professori di diritto americani che cercavano di rivedere l’approccio al razzismo contemporaneo.

Negli anni ha dato vita a movimenti di protesta, ha fatto in tempo a orientare alcune (discusse) sentenze, è scesa ad animare le rivendicazioni di Black Lives Matter fino a trasformarsi – destino ineluttabile – in bestseller. “White Fragility” di Robin diAngelo e “Come essere antirazzista” di Ibram Kendi sono due degli esempi più celebri.

È, insomma, finita al centro del dibattito pubblico americano, portando con sé vari concetti ed espressioni, come il razzismo sistemico (che costituirebbe le fondamenta stesse della società americana, utile per mantenere la tranquillità del segmento dominante), l’ostilità alle quote e ai programmi di carriera liberal (come l’affirmative action).

In più c’è il diniego del merito, la diffidenza della neutralità delle leggi e della Costituzione e la convinzione che ogni progresso verso l’uguaglianza compiuto negli anni sia dovuto a mera convergenza di interessi. A conti fatti, sostengono, in 400 anni non sarebbe cambiato granché. L’unica via di uscita sarebbe un discorso «consapevole delle implicazioni della razza», che anzi la privilegi rispetto all’ipotesi usuale di partenza dell’uguaglianza formale dei cittadini.

Come ricorda questo articolo del Wall Street Journal, la Critical Race Theory ha anche una sorta di libro fondativo, un’opera che racchiude in sé tutti i principi e lo fa – anche questo è un aspetto distintivo – con una modalità narrativa. “Faces at the Bottom of the Well”, scritto nel 1992 da Derrick Bell, avvocato e professore di diritto a Harvard e poi alla NYC Law School. Spesso viene descritto come fondatore e padrino della Critical Race Theory.

Il libro è composto da nove racconti: hanno lo stile della favola e l’ispirazione della fantascienza. In ognuno viene proposto, sotto forma di parabola, un concetto della sua teoria. C’è quello in cui emerge un continente in mezzo all’Atlantico con una particolare atmosfera respirabile solo dagli afroamericani. O quello in cui i bianchi, attraverso una nuova istituzione statale, possono pagare per avere il permesso di discriminare i neri, una sorta di mercato delle emissioni del razzismo. Il più famoso, forse, vede l’arrivo degli alieni negli Stati Uniti, i quali offrono tecnologie miracolose che possono salvare l’ambiente in cambio del permesso di prelevare e portare con sé tutta la popolazione nera. Risultato: il referendum vede il sì al 70% (e se all’epoca i neri erano il 12%, più o meno un 17% avrebbe deciso di difenderli) e gli afroamericani vengono deportati in massa verso un futuro di nuova schiavitù.

Attraverso queste invenzioni – che hanno influito sulla scrittura di autori engagé come Ta-Nehisi Coates –il messaggio che passa è la messa in discussione del senso stesso della presenza dei neri in America. Le riflessioni sulla mancanza di fiducia delle istituzioni e sul popolo bianco, che voterebbe in massa per mandarli via in cambio di qualcosa, puntano a una verità presentata come indiscutibile: nei secoli, i rapporti tra bianchi e neri non sono cambiati.

Il punto è che non è proprio così. Come aveva sottolineato Adolph Reed, anche lui studioso di razza e disuguaglianza, lo stesso Derrick Bell e la sua esperienza dimostrano il contrario di quanto afferma. «Più che un’analisi, è una geremiade». La stessa Critical Race Theory – secondo altri studiosi – non avrebbe abbastanza evidenze a suo favore e si baserebbe sul presupposto (da dimostrare) che la realtà sia un costrutto sociale. Il suo rifiuto dei fatti a favore dello storytelling, poi, porterebbe solo a nuove forme di narrazione suggestive (come gli alieni che portano via gli afroamericani) ma non si baserebbe su dati solidi. Suscita un certo stupore anche la diffidenza per il merito, interpretato solo come una forma di preservazione dello status quo, mentre preoccupa quella nei confronti della legge (interpretata come espressione costitutiva del potere bianco, quindi fallata a prescindere).

Il fatto è che il problema del razzismo è serio e articolato e l’America lo vive con dolore tutti i giorni. La posizione intransigente di Bell, che è morto nel 2011, e della Critical Race Theory, è – come scrisse già nel 1993 lo storico James Traub per il New Republic – una ricetta per la paralisi. «Se convinci i bianchi che il loro razzismo è impossibile da sradicare, cosa resterebbe loro da fare, a quel punto? E cosa potrebbero i neri, condannati a un eterno status di vittima?».

Paralisi e divisione, si può aggiungere. Il cui esito somiglia a una frammentazione della società in gruppi separati, definiti solo dalla razza.

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