Tenere le statueLa sfida di Boris Johnson contro il movimento woke

La risposta del leader dei Conservatori passa per le nuove linee guida sul patrimonio artistico/culturale nazionale. «Mantenere e spiegare», viene detto, in nome dell’idea che sterilizzare la storia non favorisca davvero il dibattito

AP Photo/Matt Dunham

Qualcosa è cambiato. Sono state le manifestazioni del 2020, con gli atti di vandalismo contro le statue di Winston Churchill (qualificato, con molta semplicità, come «racist»), la rimozione di quella di Edward Colston, gettata nella baia di Bristol, le polemiche su quella di Sir Cecil Rhodes a Oxford, per la quale diversi docenti hanno dichiarato che non terranno più lezione all’Oriel College. Ma ancora: la chiusura a data da destinarsi (cioè per sempre) della sala da pranzo della Tate Britain a causa di un affresco del 1926 giudicato troppo razzista ed etnocentrico.

La lista è lunga, le rivendicazioni numerose, a volte equilibrate, spesso fuori tono. Ma non cadono nel vuoto, visto che il governo guidato da Boris Johnson ha deciso di affrontare la questione alla base, promuovendo quella che è stata definita “war on woke”, una guerra contro il movimento “woke”. La sua declinazione è semplice: resistere alle pulsioni della cancel culture, accogliere la discussione sui temi del razzismo e del colonialismo, mantenere il controllo di musei e gallerie nazionali. Il punto più politico, come è intuibile, è quest’ultimo.

Come racconta il Financial Times in questo lungo articolo, la nuova politica di Westminster è all’opera già da tempo. L’obiettivo è di definire il comportamento più adatto rispetto al patrimonio artistico/culturale definito “offensivo” per la sua storia e per i suoi antichi legami con il passato colonialista inglese. Nei 15 musei nazionali finanziati dal pubblico, spiega l’articolo, si contano almeno 100 milioni di beni e manufatti (pochissimi esposti al pubblico). Cosa fare con questo tesoro?

La risposta fornita dal ministro della Cultura Oliver Dowden è «retain and explain». Le statue contestate vanno mantenute, «anche quando questo possa risultare complicato». In più vanno «spiegate». Cioè è compito delle istituzioni aprire un dibattito sull’eredità del passato, discutere delle colpe e delle responsabilità, riflettendo sul contesto e sul percorso storico compiuto. Come spiega Sir John Hayes, a capo del Common Sense Group, che riunisce i più agguerriti nemici della cancel culture, quello che si delinea «è un interesse ossessivo per la schiavitù». È giusto riconoscerne – per carità – i mali che ha provocato, ma «l’idea di sterilizzare la storia» nascondendone le testimonianze «è stupido, molto stupido». Si tratta di un «tentativo superficiale che porta questa generazione a pensare di essere più nobili di quanto non siano».

È anche per questo che il governo non ha rinnovato alcuni degli amministratori fiduciari in carica nei musei e nelle gallerie pubbliche. Sono volontari che provengono dal mondo del business o dell’accademia e che prestano il loro servizio in board nominati dal governo, cui viene concessa ampia indipendenza amministrativa. Il loro rifiuto di seguire l’indicazione «retain and explain» ha portato il governo a interrompere il loro mandato.

È stato un piccolo terremoto. Sir Charles Dunstone, a capo dei Royal Museums Greenwitch, si è dimesso dopo che uno dei suoi amministratori non è stato rinnovato, sollevando la protesta. Altri 12 trustee hanno confidato al Financial Times le loro preoccupazioni. Ma oltre alle conferme, mancate o sopraggiunte, del personale amministrativo, si distingue da parte del governo un atteggiamento più combattivo in merito alla questione.

Il più attivo, in questo senso, è proprio il ministro Dowden. Da un lato mostra di rispettare i principi della diversity, con il 25% dei suoi nominati provenienti da etnie minoritarie. Dall’altro adotta anche una visione personale non Londra-centrica. Il suo obiettivo, dichiarato più volte, è di promuovere anche soggetti provenienti da varie parti dell’Inghilterra, smantellando (deducono i suoi avversari) l’architettura liberal londinese. La sua azione più eclatante è stata lo scontro con i vertici del Museum of the Home sulla rimozione della statua di Sir Robert Geffrye, antico benefattore del XVII secolo che aveva fatto soldi con il commercio degli schiavi. La sua posizione contraria è stata decisiva, ma ha lasciato una crepa nel board.

In generale, nonostante il piglio deciso, la discussione è sempre aperta. Come ha dichiarato Mercy Muroki, giovane accademica e star del mondo conservatore, che siede nella Commissione sulla Razza e le Disparità Etniche, «è sbagliato accusare il governo di portare avanti una battaglia ideologica. Piuttosto, è la sinistra che porta avanti attacchi concentrici e obbliga le persone ad aderire a idee che non condividono solo per paura di essere definiti razzisti o omofobi».

Il punto è che «nell’ottica retain and explain è possibile anche spostare un oggetto. Ma quello che non deve prevalere, nella decisione finale, è la violenza della folla».