Contro la logica totalitaria dell’amoreRidiamo spazio al conflitto e al diritto di odiare il cibo

Retorica e marketing ci hanno ripetuto per anni che mettersi ai fornelli non è solo un atto legato alla sopravvivenza, ma anche un gesto con cui dimostrare affetto. Un pensiero condivisibile, ma è bene anche lasciare spazio alla devianza gastronomica

Una certa narrazione edulcorata della cucina e del mondo gastronomico in generale tende a dipingere il cibo, la cura per la sua preparazione e l’ospitalità come atti d’amore. Senza tenere conto che mentre si sprecano le definizioni del cibo come amore, appunto, anche quelle che vogliono sottolineare l’amore per il cibo non sono affatto marginali, anzi. Ma accompagnandoci a William Somerset Maugham, che ha detto che: «L’amore è solo uno sporco trucco ai nostri danni per raggiungere la perpetuazione della specie», oggi proviamo a scalfire qualche pezzo di questa narrazione, non tanto per negare che intorno al mangiare possano fluttuare tonnellate di violini celestiali, baci Perugina e altruismo disinteressato, quanto per dare a questa immagine qualche sfumatura ‒ o forse sarebbe meglio dire qualche increspatura ‒ in più.

Lo facciamo a partire da un articolo di Sofia Torre per Il Tascabile che apparentemente non ha nulla a che vedere con il tema-cibo: Contro l’utilità del sentimento amoroso. Il punto è che così come andrebbe rifiutata una visione dell’amore come desiderio lecito solo nella misura in cui è improntato alla reciprocità, al rispetto e alla linearità, di quelli per intenderci che viva l’amore canonico, viva l’amore che genera e conserva famiglia, viva l’amore funzionale a un presunto benessere collettivo, viva l’amore e abbasso l’assenza di amore, allo stesso modo dovremmo accogliere nel nostro immaginario gastronomico il conflitto, lo scontro, le increspature, appunto. Dobbiamo insomma sforzarci di difendere alcune contraddizioni del reale, vale a dire un quadro che non può essere tutto rose e fiori, e nemmeno piegato alla ricerca utilitaristica e pseudo-totalitaria del Bene con la B maiuscola, anche perché come scrive Torre, «Senza la spontaneità, cosa distingue l’amore dall’ennesima soluzione progressiva che si basa sulla responsabilità individuale, sulla possibilità di avvicinare le persone al Bene ammaestrandole, educandole, trattandole come in uno sterminato campo scout che non finisce mai? Si tratta di socializzare con una pretesa pedagogica, di democratizzare e regolarizzare qualcosa che invece nell’esperienza reale delle persone è aleatorio, ingiusto, ineguale e incontrollabile». Tradotto: se da un lato dobbiamo sforzarci di vedere i numerosissimi elementi conflittuali che abitano il mondo del cibo, dall’altro dobbiamo anche sforzarci di non incanalare tutto il conflitto in direzione di una risoluzione etica e utilitaristica. Ri-tradotto con un esempio più concreto: va bene denunciare il modello degli allevamenti intensivi, ma la crociata contro il consumo eccessivo di carne non diventi totalitaria, ecco, anche perché dovremmo custodire gelosamente il nostro diritto alla “devianza”.

A proposito di questioni conflittuali, su Gastro Obscura Sheryl Nance-Nash ha pubblicato The Chef Fighting Mass Incarceration With Food. Racconta la storia di Kurt Evans, un cuoco che ha deciso di aprire una pizzeria in cui assume solamente donne e uomini che sono state/i in carcere.

Il lato più nascosto della narrazione contemporanea sul cibo è quello che riguarda l’assenza di cibo, e quindi la fame. Su Eater Jaya Saxena ha scritto un pezzo dal titolo Our Hunger Crisis Is Far From Over, in cui spiega come la fine dei sussidi per la disoccupazione in molti Stati americani peggiorerà la situazione di tantissime persone, in un contesto in cui le collette alimentari e le cosiddette food banks sono già parecchio al limite.

Tocca citare di nuovo Dario De Marco, che su Dissapore ha scritto Ristoranti: “Stipendi dimezzati, ore raddoppiate”: lo sfogo di uno stagionale. I suoi articoli sul lavoro nel mondo gastronomico at large (sui rider, sui dipendenti della ristorazione…) stanno portando un contributo decisivo alla discussione nel settore.

Ma se volete dilettarvi nel seguire un personaggio che ha fatto della narrazione conflittuale e increspata del cibo la sua cifra filosofica e di azione, date un’occhiata ai progetti di Tunde Wey, cuoco e attivista statunitense di origini nigeriane attivo perlopiù sul suo profilo Instagram. Tra le sue iniziative più celebri e discusse, quella che lo ha visto mettere in commercio delle scatole di sale marino al prezzo di 100$ per gli acquirenti bianchi, e gratis per i neri. Da qualche giorno il prezzo per i primi è salito a 5.000$.

Tornando a parlare di amore, Alicia Kennedy nella sua ultima newsletter On Knowledge suggerisce che la preparazione, lo studio, l’approfondimento messi al servizio della comunità sono il fulcro del più genuino sentimento di cura per il prossimo. Ne parla in relazione alla ricettistica, sottolineando inoltre come l’epoca attuale, quella del dito puntato contro “i professoroni”, sia un’epoca percorsa dall’odio proprio perché la competenza sembra essere diventato un disvalore.

Infine Internazionale ha tradotto un articolo di Arthur C. Brooks, originariamente uscito su The Atlantic: Non fate gli schizzinosi nell’approcciarvi alla vita. Si parla di come coltivare l’amore per le avventure della vita, oltre che di come imparare a concedersi a nuovi universi gastronomici e gustativi, ma anche dei pericoli che si nascondono dietro una neofilia esasperata.

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