Il 27 maggio è uscito “Armati di scienza” (Raffaello Cortina editore) il nuovo libro della senatrice a vita Elena Cattaneo. Come spiega la senatrice nell’introduzione, “armati” non va inteso come se fosse in atto una guerra contro qualcuno – la scienza non è un’arma con cui far male agli altri – ma è un invito a farci tutti forza e scudo di essa. Cattaneo si rivolge in modo particolare agli scienziati, perché nel mondo di oggi il loro lavoro non può essere riservato solo ai convegni, ai laboratori o alle riviste specialistiche. Il compito degli scienziati deve comprendere necessariamente anche la divulgazione: apparire per essere comprensibili, spiegare senza arrendersi alle mistificazioni, anzi combatterle e sfidarle. Un lavoro necessario e continuo, d’importanza pari allo studio, come la pandemia continua a mostrarci quotidianamente, ad esempio con i vaccini che, se da un lato rappresentano un successo enorme per la scienza, dall’altro hanno bisogno, perché la conquista sia reale e duratura, di essere spiegati, diffusi e difesi, preferibilmente con buone argomentazioni. La senatrice a vita – solo la terza nella storia della Repubblica, a fronte di 43 uomini (Liliana Segre, poi, è stata la quarta) – spiega anche perché, per ragioni evoluzionistiche, il cervello umano sia sensibile ad argomenti non “scientifici” e dedica diverse pagine gustose ai numerosi “ciarlatani” del nostro recente passato e del presente e ai loro trucchi e propone quasi un vademecum su come sbugiardarli.
La pandemia poteva essere un’occasione per farci forza della scienza e permettere anche a chi, negli ultimi tempi, aveva perso fiducia di recuperarla. Le pare sia stata un’opportunità colta?
“Armati di scienza” propone l’idea che la scienza sia al nostro fianco, ogni giorno, e che del metodo scientifico possiamo e dobbiamo farci forza per comprendere le “cose del mondo”, per non averne paura e per distinguere i fatti dalle opinioni, le competenze dai ciarlatani, una notizia affidabile da una fake news. E questo credo debba essere anche l’obiettivo di scienziati e istituzioni all’indomani della fase più dura della pandemia, che ci auguriamo si possa dire trascorsa. Una sfida prima di tutto comunicativa, come stiamo vedendo anche in questi giorni sui vaccini: per recuperare e mantenere “l’innamoramento“ generale per la scienza che si è visto a inizio pandemia, per farlo diventare fiducia, è indispensabile spiegare come ogni gradino raggiunto oggi si poggi su quello costruito ieri da altri e come il dato di oggi possa essere migliorato e approfondito grazie alle prove che altri raccoglieranno domani. Dobbiamo raccontare la meraviglia della scienza e della scoperta senza rinunciare a raccontarne i fallimenti o ad ammettere che il “rischio zero“ non esiste. Senza mettere in discussione la supremazia della scelta, che è prerogativa della politica, credo che i decisori politici abbiano il dovere, avvalendosi delle evidenze fornite dalla scienza, di motivare puntualmente le ragioni di ogni decisione. L’obbligo di indicare pubblicamente le ragioni a fondamento delle decisioni politiche credo sia un aspetto qualificante di una democrazia matura.
Lei insiste molto sul concetto di “trasparenza”. Oggi, però, molti cittadini sembrano aver trasformato un salutare scetticismo nell’incapacità di credere che qualcosa possa essere realmente trasparente. Come si evita ciò?
Ci sono notizie che – giustamente – fanno più scalpore di altre. Penso ad esempio a quelle che parlano di concorsi truccati nelle Università. Sono realtà che esistono e che meritano l’attenzione e la riprovazione pubblica, peraltro e purtroppo esistenti in ogni ambito, anche in istituzioni non universitarie che non avendo l’obbligo della trasparenza non sono oggetto di censura. Soprattutto, queste realtà distorte rappresentano solo una parte del racconto. Ancora una volta, quindi, torna la necessità di riportare pubblicamente ogni passo, a partire da quelli giusti, accanto alla condanna di quelli sbagliati. L’etica pubblica di chi pratica e insegna una disciplina accademica, al pari di quella di chi amministra un territorio o un Paese, impegna a garantire e promuovere la libera competizione, a investire risorse garantendo il risultato migliore o più efficace al cittadino. Un obiettivo che si raggiunge anche denunciando e ribellandosi a condotte che tradiscono questa etica. Denunciare è giusto, eticamente doveroso, ed è fondamentale che le istituzioni sostengano – ad esempio nei processi, costituendosi parte civile – chi s’impegna in prima persona nell’affrontare pubblicamente storture a ogni latitudine.
Fino a qualche anno fa, su temi come quelli della vaccinazione le persone si ponevano molte meno domande e le adesioni erano quasi “naturali”. È davvero possibile convincere tutti? Senza cadere nella provocazione, ma a volte provare a spiegare non rischia di suscitare ulteriore diffidenza?
Pochi giorni fa il Joint Research Centre (JRC), il servizio scientifico interno della Commissione europea, ha presentato il report “Capire la nostra natura politica” che analizza il ruolo della scienza e del suo metodo anche nel comprendere i meccanismi della decisione politica individuale e collettiva. La considerazione centrale è che le nostre competenze intellettuali sono messe a dura prova dal contesto dell’informazione attuale che rende tutti vulnerabili alla disinformazione, sia politici sia cittadini-elettori. Nel mio libro ricordo che, dalle neuroscienze cognitive, abbiamo imparato come il nostro cervello per molti aspetti sia “rimasto al Pleistocene”, facendo fatica ad abbandonare comportamenti e modalità consolidati in migliaia di anni in cui l’uomo pensava solo alla sua sopravvivenza quotidiana, un giorno per volta. La lentezza e la difficoltà con cui il nostro cervello assume decisioni razionali fa da contraltare alla velocità di un mondo sempre più ricco di opportunità e informazioni: a volte avere troppe scelte ci paralizza e ci ostacola, soprattutto quando non siamo in grado di comprenderne tutte le implicazioni. C’è da considerare poi che il rapporto tra costi e benefici di una scelta non è sempre costante, ma può variare anche di molto al mutare delle circostanze. Rispetto al caso specifico della vaccinazione, il rischio immediato di effetti collaterali è istintivamente percepito come più importante rispetto al rischio, molto più probabile, delle conseguenze derivanti dalla malattia causata dall’incontro con il patogeno. Diverse indagini internazionali – come questa recente del JRC – convergono comunque nel dimostrare che le resistenze sociali verso le innovazioni scientifiche si attenuano quando migliora il rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni politiche e scientifiche.
È molto efficace questa descrizione che lei fa del ciarlatano – «Parla al cuore delle persone, si mostra empatico, l’unico in grado di comprendere la malattia e la sofferenza che ne deriva, ha un linguaggio persuasivo ed emotivo prima che scientifico». Allo stesso tempo, se il ciarlatano ha tanto successo vuol dire che per molte persone c’è un forte bisogno di non ridurre tutto alla materia e curare anche l’aspetto emotivo.
Spesso temo si trascuri l’aspetto umano della scienza e della medicina. Mi capita spesso di parlare con i malati e i loro familiari, li accogliamo anche nel nostro laboratorio se ne hanno piacere; non rinuncio mai a rispondere a una mail che chiede chiarimenti su una terapia o su alcuni aspetti della malattia. Perché sono convinta che non vi sia nulla nella scienza che non possa essere spiegato a un cittadino e che tutti abbiano il diritto di capire il perché delle loro sofferenze, quali siano le vie validate che la scienza offre per attenuarle, quali strade si stia seguendo per arrivare a una cura, quali questioni restino ancora incerte. E vorrei davvero che tutti potessero conoscere, a uno a uno, i tanti studiosi nel mondo, giovani e meno giovani, che dedicano tutta la loro vita a comprendere le cause e a immaginare le possibili strade per combattere una malattia.
Qual è il ruolo dello scienziato?
Il ruolo dello scienziato non può esaurirsi al bancone di laboratorio. Lo scienziato ha un ruolo sociale molto importante che consiste nel rendere accessibili prove ed evidenze ai cittadini, perché tutti hanno il diritto di capire, anche per difendersi da chi promette loro miracoli. È sempre lo scienziato, insieme ai bravi comunicatori della scienza, che ha la responsabilità di spiegare e offrire quei dati ai decisori politici, affinché non si lascino abbagliare dai ciarlatani e abbiano più strumenti per prendere decisioni responsabili, nell’interesse e per il miglioramento delle condizioni di tutti. Nel libro più volte ricorrono le mie esortazioni alla comunità scientifica a farsi avanti rivendicando questo ruolo pubblico, a rivolgersi alla politica chiedendo a gran voce una correzione di rotta quando intraprende la strada della pseudoscienza o quando asseconda narrazioni e paure infondate in cambio di consenso immediato. Ritengo poi indispensabile che lo studioso racconti pubblicamente delle conquiste della scienza, ma anche e soprattutto dei suoi fallimenti, del fatto che la ricerca procede sempre per prove ed errori, ponendosi sempre alla frontiera di ciò che è conosciuto e non temendo di trovarsi su un fronte che – per quanto ben pensato e perlustrato per anni – si riveli poi sbagliato. Quel fallimento verrà accettato, anche se con sofferenza, tenendo a mente che eliminare le strade sbagliate lascia spazio a quelle giuste, e che dall’errore di oggi potrebbe nascere la scoperta decisiva di domani.
In queste settimane ha avuto molto risalto la polemica sull’agricoltura biodinamica. Ciò che mi è sembrato interessante nel dibattito è che vige ancora il sospetto per cui la scienza sia sempre dalla parte del potere. In realtà, in quell’occasione, il voto favorevole è stato quasi unanime…
Il voto favorevole quasi unanime dell’Aula era sul complesso della legge che disciplina il comparto dell’agricoltura biologica. Io, invece, ho posto una questione specifica e molto chiara che riguardava il riferimento preferenziale alla agricoltura biodinamica nel testo normativo. Su questo punto ho presentato tre emendamenti che avevano l’obiettivo di rimuovere la parola “biodinamica” dalla legge, evitando in tal modo che il Parlamento garantisca una forma di legittimazione di quelle attività esoteriche e stregonesche che rappresentano la differenza primaria tra il biodinamico e il biologico. Eliminando il termine “biodinamica” dal testo di legge in discussione, si continuerebbe a permettere a chiunque di praticare l’agricoltura biologica e di accedere, previa certificazione, alle agevolazioni previste per quest’ultima; rimarrebbe anche la libertà di aggiungervi rituali magici (purché non contrastino coi disciplinari biologici o altri regolamenti) senza però arrivare a promuovere tali riti in Gazzetta Ufficiale. Per chi conosce e pratica il metodo scientifico è chiaro che dare dignità per legge al pensiero magico rischia di far saltare ogni rapporto con la realtà, come fu con Stamina.
Che seguito ha avuto la vicenda?
Sul tema la comunità scientifica (e non solo) è in fermento; si sono mobilitati i Lincei, varie società scientifiche, come la Società italiana di tossicologia (Sitox), l’Associazione italiana società scientifiche agrarie (Aissa), l’Accademia nazionale dell’Agricoltura (Ana), la Federazione italiana scienze della vita (FISV), l’Unione nazionale delle accademie per le scienze agrarie (Unasa), l’Accademia nazionale delle scienze, l’Accademia dei Georgofili, ma anche la commissione Sanità della giunta regionale della Puglia, le rappresentanze Confagricoltura di Mantova, di Milano-Lodi, della Regione Toscana e molte altre. Anche il presidente di Confagricoltura nazionale, Massimiliano Giansanti, ha espresso pubblicamente la sua condivisione delle «perplessità espresse dalla comunità scientifica italiana in merito all’equiparazione dell’agricoltura biologica a quella biodinamica, che fa ricorso a pratiche e prodotti già definiti come “inconciliabili con la scienza”».
Su Change.org c’è inoltre una petizione proposta da un gruppo di autorevoli studiosi contro il riconoscimento ufficiale della biodinamica nell’ordinamento italiano, che attualmente conta oltre 34mila firme. Molti ricercatori italiani da tutto il mondo l’hanno sottoscritta, preoccupati per l’impatto negativo di una simile decisione sulla credibilità scientifica del nostro Paese. Voglio ricordare, inoltre, che eliminare la menzione della biodinamica dal testo del disegno di legge non implica affatto l’affossamento parlamentare del ddl: se vi fosse unanimità su questa decisione, la Camera prima e il Senato poi, senza passare dall’Aula, potrebbero approvarlo direttamente in commissione in sede deliberante, concludendo i lavori in poche settimane.
Le tecnologie più avanzate che regolano sempre più le nostre vite sono applicazioni di grandi scoperte scientifiche. Questo dominio deve preoccuparci? E la preoccupa?
Più è ampia la libertà di ricerca, più conoscenze possiamo accumulare e condividere rispetto alle nuove scoperte e alle tecnologie che ne derivano. Nel libro spiego che una nuova scoperta, per essere accettata come tale, deve superare il vaglio attento di migliaia di studiosi che ne discutono la validità, ne mettono in discussione dati e metodo, ne considerano l’utilità sociale e ne controllano passaggi e ripetibilità. La “prima sentinella” dell’etica della ricerca è sempre la comunità degli studiosi che spesso, di fronte a un nuovo oggetto, com’è stato con il nuovo Coronavirus, parte da punti di vista anche molto differenti per convergere su una conoscenza comune man mano che il processo della scoperta va avanti. Spesso, quando – erroneamente – si punta il dito contro gli “scienziati che litigano”, in realtà si sta assistendo a un confronto scientifico molto serrato su argomenti ancora in larga parte ignoti. E la base del pensiero critico è proprio il confronto: ogni ipotesi e teoria può e deve essere messa in dubbio per testarne la validità. Quelle che “cadono” di fronte a prove e obiezioni lasciano spazio a quelle che resistono, e così il processo conoscitivo va avanti.
In diverse occasioni durante la pandemia (per citare la più recente: ad aprile quando sono state decise le riaperture) si è detto che certe decisioni spettavano alla politica e non alla scienza. È corretta questa impostazione?
Pienamente corretta: la scienza può fornire metodo, prove, risultati, certezze e probabilità – ed è bene che continui a farlo. Ma è sempre la politica ad avere la responsabilità di dire l’ultima parola, di scegliere. Dalla scienza possono arrivare indicazioni sulla totale affidabilità delle prove disponibili, oppure sulla “forbice” di certezza o probabilità di una serie di scenari, ma nulla di tutto questo può garantire a priori che la decisione che verrà presa sarà quella “giusta”. Naturalmente, escludere prove certe o probabilmente certe può rendere la decisione politica ancora più difficile. Perciò, la fiducia dei cittadini nelle istituzioni passa proprio dal fatto che sia il decisore politico ad assumersi pienamente la responsabilità della norma introdotta. Il che implica anche la capacità di saper gestire con prontezza e coraggio le conseguenze delle scelte assunte quando gli effetti non corrispondano alle aspettative, se necessario anche cambiando radicalmente approccio alla luce di nuove evidenze disponibili. Come succede nella scienza. In questo anno e mezzo la politica ha sperimentato un nuovo rapporto con la scienza. L’ha cercata come mai prima d’ora. Ma questa frequentazione improvvisa e inedita tra politica e scienza ha portato alla luce le difficoltà di un rapporto tra due mondi che non si conoscevano, che non parlavano lo stesso linguaggio. In Italia, infatti, sono sempre mancati luoghi abituali e strutturati di confronto, dove il decisore politico potesse rivolgersi agli esperti. Servirebbe, invece, una consuetudine, un metodo di lavoro comune.
Fino a pochi mesi fa sembrava che anche solo credere plausibile l’ipotesi della fuga del virus da un laboratorio fosse materiale da complottisti. Lei invita gli scienziati a profondere nella divulgazione lo stesso impegno che mettono nella ricerca. Come evitare, però, che troppe voci generino confusione?
Se c’è una cosa che l’“infodemia” di questi mesi ci ha insegnato, è che uno studioso esperto di una certa materia, chiamato a rispondere su altre materie, dovrebbe evitare quanto più possibile di entrare nel campo delle opinioni; se si interessa di altri ambiti specialistici su cui non lavora direttamente, la sua familiarità col metodo della scienza può insegnargli a studiarli selezionando le prove, le fonti, gli esperti più affidabili da consultare. Tutto ciò va esplicitato con chiarezza. E si può anche spiegare al cittadino che le tante voci discordanti sullo stesso fenomeno raccontano una dialettica che noi viviamo sempre nei contesti scientifici, mentre si forma la conoscenza: questa “disputa” – se ben spiegata – conferma la libertà e l’indipendenza, oltre che la vivacità intellettuale, della comunità degli studiosi, che non è un monolite che risponde all’unisono, ancor meno quando l’argomento di studio è nuovo. In questi mesi, di fronte alla riscoperta di una sensazione di impotenza e di paura portata dalla pandemia, i cittadini hanno reagito cercando nella scienza e nei tanti esperti interpellati quotidianamente in televisione e sui giornali tutte le risposte alle incertezze per il futuro. Ma c’è stata anche una evidente difficoltà a conciliare la complessità delle tematiche scientifiche con la tendenza alla semplificazione e alla polarizzazione propria del dibattito dei media e dei social. In futuro mi auguro che da questi errori sapremo imparare tutti, scienziati e media.
Pur davanti a dati oggettivi è sempre più comune vedere persone che radicalizzano la propria opinione o che scelgono solo le informazioni di comodo. È un atteggiamento che ha più a che fare con l’emotività che con la scienza. Si possono rompere davvero certi pregiudizi? Lei parla dei vaccini per il Covid-19 come di una grande vittoria della scienza e ribadisce che i vaccini sono prodotti molto più sicuri persino di medicine che prendiamo con grande naturalezza. Eppure, molti dubitano proprio dei vaccini, basti vedere le percentuali di over 60 che paiono ancora riluttanti… Come si spiega questa apparente incongruenza?
Negli ultimi decenni diversi studiosi, tra cui il Premio Nobel Daniel Kahneman, hanno dimostrato che alcuni nostri processi decisionali non sono affatto logici e razionali e che le nostre scelte, i modi di ragionare, le deduzioni e le aspettative appartengono a un cervello adattato alle condizioni di vita di decine di migliaia di anni fa, quando si privilegiava un atteggiamento conservativo, limitato alla sopravvivenza immediata. Da qui nascono alcuni nostri vincoli cognitivi, o errori di valutazione, i cosiddetti bias. In altre parole, le nostre reazioni sono irrazionali perché il nostro cervello è come un computer di trent’anni fa sul quale proviamo a installare un programma di ultima generazione. Non è per forza un problema, ma lo diventa se rifiutiamo di tenerne conto e pensiamo di basare le nostre posizioni sul presupposto che gli esseri umani siano sempre razionali. Ad esempio, dobbiamo sempre tenere presente che di fronte a nuove informazioni tendiamo a selezionare quelle che confermano le nostre convinzioni e, viceversa, a ignorare o sminuire quelle che le contraddicono. Si chiama “bias di conferma”, e non è l’unico con cui abbiamo a che fare. Lo studio di queste resistenze cognitive, oltre a essere affascinante di per sé, ci aiuta a elaborare strategie comunicative più efficaci. Alcuni studi di psicologia cognitiva suggeriscono ad esempio che per rimuovere i pregiudizi, anziché elencare dati e studi scientifici che “sfidano” le conoscenze assunte come vere dall’interlocutore reticente, può essere più utile dare un’informazione nuova, aggiuntiva. Ad esempio, mostrando le conseguenze – anche drammatiche – di scelte dettate da teorie pseudoscientifiche: accetto che un cittadino possa avere paura dei possibili effetti collaterali del vaccino contro il morbillo su suo figlio, ma, affinché la sua decisione sia più responsabile, lo informo anche sulle gravi e ben più probabili complicanze che può avere il morbillo su un bambino non vaccinato.
A proposito della questione di genere nel nostro Paese lei scrive: «Se è vero che il cristallo è noto per la sua durezza, è anche vero che si può infrangere d’un tratto. Si tratta solo di cercare insieme il punto di rottura». Dov’è questo punto secondo lei?
Storicamente le donne sono state tenute lontane dalla vita pubblica, dallo studio e da ogni possibilità di autorealizzazione. Sul fronte della parità, le cose stanno cambiando. Sempre più spesso si vedono donne che arrivano al vertice. In questi ultimi anni abbiamo avuto “la prima presidente” del Senato, della Corte Costituzionale, del Cnr, la prima donna a capo dei Servizi segreti e la prima donna europea (la terza al mondo) a capo della Stazione spaziale internazionale. Credo che a favorire quella che ho definito più volte come una “rincorsa” di chi, suo malgrado, è partito in ritardo e zavorrato da pregiudizi siano stati diversi fattori. Innanzitutto, il fatto che oggi, a differenza del passato, il “soffitto di cristallo” che limita la crescita professionale delle donne si conosce, si denuncia e ci si interroga su cause e soluzioni. Non è dato conoscerne l’esatto punto di rottura, ma bisogna colpirlo più volte e da più direzioni per far sì che, alla fine, “esploda”. È poi fondamentale che le aspirazioni professionali di ciascuno siano accompagnate da politiche sociali che permettano a tutti, donne e uomini, di conciliare il lavoro con la vita privata e familiare.