SpatriatiL’arrivo degli albanesi è stata una delle ragioni del successo della Puglia, dice Mario Desiati

Lo scrittore racconta che cosa abbia significato il boom degli anni Duemila della sua regione. E che “libertà” vuol dire necessariamente allontanarsi dalle proprie origini, andandosene dalla propria terra o scegliendo di restarci, ma con uno sguardo nuovo

PIERGIORGIO PIRRONE / MARGOPHOT / LaPresse

“Spatriati”, titolo del nuovo romanzo di Mario Desiati, è una meravigliosa parola polisemica. Lo spatriato è chi va via, certo, ma ridurre lo spatriato a un expat sarebbe una banalizzazione. Si può essere spatriati anche in casa propria, quando si rifiuta la visione della vita dominante in patria. Quando si è irregolari, incapaci di accettare un’esistenza che appare ristretta e irregimentata da regole intoccabili, stabilite da chissà chi o chissà quando. I protagonisti di “Spatriati” sono due ragazzi che vedremo crescere nel corso del libro fino a diventare adulti, Claudia e Francesco, accumunati dalla condizione di sentirsi esuli. Una deciderà di diventarlo realmente, il prima possibile, senza tuttavia trovare con la rapidità sperata una realtà più piena, l’altro sceglierà di rimanere più a lungo a casa, sempre indeciso tra l’adesione e il conflitto a viso aperto. Pur a distanza i due coltiveranno tra loro una relazione speciale, indefinibile eppure profonda.

Mario Desiati è uno dei pochi scrittori italiani che ha il coraggio di una lingua lirica e che riesce a controllarla evitando la leziosità. Ha pubblicato i primi romanzi da giovanissimo, è stato editor e direttore editoriale a un’età del tutto inusuale per gli standard del nostro Paese. Poi ha scelto un’altra strada.
Claudia e Francesco prendono diverse decisioni che creano attrito con la società che gli sta attorno, ma per evitare il rischio che le loro decisioni apparissero ideologiche mi sono prefisso la naturalezza come obiettivo. E ho lavorato il più possibile sull’autenticità dei loro gesti. Volevo che, in qualche modo, le loro scelte e come le maturavano rispecchiassero anche quella che è la mia visione del mondo: procedere con naturalezza nel raggiungimento della propria identità. Perché comprendere la propria identità è un processo lungo. Vedi cosa succede a Claudia: arriva a 18 anni, non le è chiaro cosa desidera, ma capisce che non vuole vivere dov’è nata. E va via. Ma uno ci può mettere anche cinquant’anni per capire chi è davvero, oppure può passare tutta la vita a farsi certe domande senza capirlo.

Quali domande?
“Chi sono?” e poi “Chi sono stato?”, Che cosa faccio e che cosa ho fatto?” sono domande che uno, comunque, si porrà in certi momenti della vita. E poi: “Sono riuscito a fare quello che volevo fare? Ma quello che volevo fare davvero era questa vita qui? Dovevo per forza avere un lavoro rispettabile, che però per me è fonte di infelicità? Dovevo per forza avere una casa di proprietà?”.

Come rispondono a queste domande Claudia e Francesco?
Sono due personaggi che scovano nella società delle forme di convivenza e d’amore congeniali a loro. Anzi per certi versi contribuiscono proprio loro a reinventare delle forme nuove, anche di identità sessuale. Per questo credo che il libro, alla fine, sia un libro sullo spatriare da tutto: non un libro su quelli che vanno a vivere all’estero, ma un libro in cui ci sono persone che spatriano da tante patrie. Non a caso “patria” è un termine che in origine vuol dire proprio “terra dei padri”, perché sono tante le terre dei padri da cui uno può emanciparsi. Così come sono tanti i modi in cui lo si può fare: più conflittuali o più dialoganti. Ma in ogni caso tocca allontanarsi, perché libertà vuol dire necessariamente allontanarsi dalle proprie origini o fisicamente o rinnovandole con uno sguardo nuovo.

L’idea di non star bene nel posto in cui sei nato è un’idea senza tempo. Nella Puglia e nel Meridione che racconti c’è un tratto in più.
Ho provato a raccontare due visioni del mondo: amare un luogo, ma andarne via, e spatriare anche senza andar via. Quando il protagonista decide di rimanere in Puglia e fa di quella scelta la sua forza, partecipa con entusiasmo alla fase che la Puglia ha vissuto nel primo decennio degli anni Duemila, che in qualche modo ha poi portato al boom del turismo e dell’immaginario di oggi, visto che da “Mine vaganti” in poi – per me il vero spartiacque – la Puglia è una terra dove si girano tanti film e tantissima fiction televisiva. Allo stesso tempo la Puglia ha diversi problemi e io che adesso vivo più in Puglia che altrove trovo che sia ancora un luogo di grande dolore perché è una terra molto esposta, dal futuro molto incerto, in cui molti arrivano ogni anno, e altrettanti vanno via stufi o insoddisfatti.

Siamo abituati a considerare il Sud Italia come un luogo di emigrazione. Tu poni l’accento su come, invece, sia anche un luogo di immigrazione.
Dalla Puglia sono partiti in tantissimi e sono tornati in tantissimi. Tendiamo a dimenticarlo, ma è stata la prima regione letteralmente “colonizzata”, quando ci fu la caduta del muro di Berlino. Allora, ogni giorno, arrivavano 5-6.000 albanesi. Un giorno ne arrivarono addirittura 30.000. In una sola volta. È una cosa che spesso si sottovaluta, ma l’impatto che ha avuto l’immigrazione albanese è, secondo me, la ragione del successo della Puglia negli anni Duemila. Perché la Puglia si è meticciata subito. Fino al ’92, io – come quasi tutti gli studenti – frequentavo una classe di soli italiani, mentre l’anno dopo in ogni classe c’erano 3-4 albanesi. Significa che si iniziava a imparare qualche parola albanese, capivi che il muro di Berlino era caduto davvero e che qualcosa nella tua vita cambiava davvero, che non era cambiata solo sul libro di storia o in televisione. Lo vedevi nella vita di tutti i giorni, nelle persone che parlavano una lingua diversa, lo sentivi negli odori dalle cucine del centro storico perché il centro storico di tante città, che era prima un po’ disabitato, si riapriva e ripopolava con gli albanesi che arrivavano.

In quegli anni si parlava moltissimo di come gli albanesi immaginavano l’Italia: lo sguardo degli altri ti fa scoprire anche quello che non sapevi di essere.
Francesco vive il cambiamento della Puglia. Ma questo significa che vive anche il dolore per il mutamento del paesaggio, soprattutto nel Sud della Puglia con l’arrivo della Xylella. Lo spettro dei nostri campi diventati neri, con gli ulivi sradicati. Nei primi mesi di malattia sembra che si arrugginiscano le foglie della pianta: c’è un momento in cui gli ulivi diventano rossi e ti pare di essere in autunno – anche se gli ulivi in autunno non hanno certo le foglie rosse – è un fenomeno stranissimo. A un certo punto Francesco vede arrugginirsi non solo gli ulivi reali, ma anche gli ulivi interiori. Quella morte davanti a sé mette in crisi il suo rapporto con la terra, è come se fosse un’esplosione. Che può significare che il momento per andar via è finalmente arrivato o, forse, che quella è la motivazione definitiva per restare. Ancora più spatriato, ma proprio nel posto in cui è nato.

Si dice spesso che dopo la Seconda guerra mondiale emigrassero le famiglie degli operai, invece in epoca recente emigrano i laureati. Ti sembra vero?
È un argomento che seguo da quindici anni e di cui ho scritto molto. Ma, in realtà, oggi non è più così, nel senso che emigrano pure tantissime persone che cercano anche lavori più umili. Non ti nascondo che nella mia esperienza personale, che è alla base di questo libro, c’è anche l’emigrazione all’estero, a Berlino per la precisione, dove ho vissuto in quello che nel libro ho chiamato “Ghetto Italia”. Quando vanno all’estero, gran parte degli italiani si armonizzano nel Paese che li ospita, ma una piccola parte ha sempre difficoltà a entrare nei meccanismi del lavoro e della lingua, si rivolge solo ad altri italiani e così si crea, come dire, una specie di piccolo ghetto. È curioso perché uno pensa, di solito, che queste cose accadano solo ad altri popoli e, invece, io questa cosa l’ho vissuta personalmente.

Com’è questo ghetto?
Berlino è una città incredibile perché, paradossalmente, puoi vivere anche senza saper parlare inglese e tedesco, visto che ci sono 50mila italiani. È una città nella città, ci sono posti dove si parla italiano, ristoranti italiani, serate italiane, cinema italiani, giornali italiani, magazine italiani, quindi esiste proprio la possibilità per tanti italiani di non parlare mai tedesco. Ma, detto questo, alla fine non è più solo un’emigrazione per ragioni intellettuali, come si continua a dire, ma anche un’emigrazione per ragioni esistenziali: si va via per non dover subire più la pressione sociale.

Massimo Troisi scherzava sul fatto che i napoletani – ma vale un po’ per chiunque arrivi da Sud – non possono viaggiare, possono solo emigrare.
Sempre più spesso tante persone riconoscono la propria identità diversa, fuori dalle regole del posto in cui sono nati, e solo quando si trovano al riparo dalle convenzioni in cui sono cresciuti. Persone che, a quel punto, riescono a prendere delle scelte di vita dicendo: «Per me è più facile lavorare in una casa di cura tedesca, anche se sono laureato alla Bocconi, e nessuno mi rompe le scatole perché sto facendo questo, però ho il tempo per i miei libri, la mia musica, per conoscere persone, per formarmi una famiglia diversa, con dei canoni diversi, per sperimentare… Piuttosto che fare il lavoro per cui ho studiato, che in Italia devo – secondo gli altri – fare». E stare in un posto in cui nessuno mi chiede conto delle cose che faccio.

Capita ancora?
È una cosa che capita ancora moltissimo, è capitato anche a me. Quando sono andato via dall’editore per il quale lavoravo, e avevo una certa posizione e anche un ruolo sociale perché ero in una posizione apicale della casa editrice, il giorno dopo nel nostro ambiente, nella bolla editoriale, comunque mi dicevano: «E mo’ che fai? Che andrai a fare in Germania? Ma perché te ne sei andato? Ma non hai intenzione di mettere famiglia? Non vuoi costruire nulla nella tua vita? Dove vai a vivere esattamente?». Ma per certe domande uno dovrebbe rispondere solo a sé stesso.

A proposito di patria, oggi si parla moltissimo di patriarcato.
Nel libro si parla di due personaggi che fanno i conti con gli schemi patriarcali. Uno, l’io narrante, in realtà lo capisce tardi, ma lo capisce. Compie un processo per capire che cos’è lo schema patriarcale. Mentre Claudia capisce subito qual è lo schema patriarcale con cui è cresciuta e si spatria subito. “Spatriati” è proprio il titolo perfetto per questa storia, perché si “spatriarcalizzano” tutti e due. C’è un momento in cui lui, ancora ragazzo, indossa per la prima volta, quasi per gioco, una tonaca da prete e incontra Claudia. Lei gli dice: «Stai bene con la gonna» e nel frattempo è vestita da uomo. È ovviamente un’immagine plastica, in cui si scambiano in qualche modo il ruolo sociale e la gente da fuori li guarda in maniera un po’ strana, perché vedono una ragazzina vestita da uomo e un ragazzino con una tonaca molto larga che sembra quasi vestito da donna. Quindi è un modo anche simbolico per mostrare il loro percorso anti-patriarcale. Poi, a prescindere dal momento specifico, volevo fare un discorso sulla fragilità, nel senso che spesso si parla in maniera negativa di un maschio che non fa certe cose dicendone che è un “maschio beta”.

Tu come sei?
Francesco, come anche io, siamo dei maschi beta, in questa visione. Però, ti dico, io ho lavorato su di me, perché gli schemi patriarcali esistono, io ce li ho e li combatto: è difficile togliere il patriarcato da dentro di te, soprattutto se ci sei cresciuto dentro. Ti racconto un episodio. Anni fa, presentavo un libro per ragazzi e, a un certo punto, inizio a raccontare un aneddoto calcistico. Mentre lo sto raccontando, una ragazza del pubblico mi chiede: «Ma perché ti sei rivolto solo ai maschi e non a noi?”, perché c’erano molte ragazze che si erano messe da una parte dell’aula e io, in quel momento, mi ero rivolto ai ragazzi. E mi sono accorto che l’avevo fatto inconsciamente. Così mi sono chiesto: «Mario, perché stai facendo questo? Lo stai facendo perché in te c’è una parte che pensa che un aneddoto calcistico lo capiscano solo i maschi». E mi rendevo conto che il mio inconscio stava lavorando su uno schema ed era in quel momento preda di questo tipo di schema. Ecco perché sto lavorando su di me. E questo è un libro di due persone che hanno coscienza, subito l’una, più avanti l’altro, di quanto sia una gabbia, alla fine, il patriarcato. Perché si è più liberi senza questi schemi: la vita è migliore e più bella. Cambia tutto, è una svolta, sei più libero. Infatti quando dicono «Eh, però, il patriarcato… Non si può dire più niente!» a me verrebbe voglia di rispondere: “No, invece si è più liberi, proprio perché ti sei liberato da questo».

Forse c’è tanta resistenza, perché tutti i processi di liberazione sono finiti col creare gabbie peggiori… Ma a proposito di questo, nel libro citi Franco Cassano, purtroppo scomparso di recente. Un tipo di intellettuale che ha inciso moltissimo sulla realtà del Sud Italia. Pensi che quel tipo di presenza sia ancora possibile?
Per me Cassano è stato un grande esempio di presenza. Ovviamente parlo di un’esperienza personale, anche un po’ elitaria, ahimè, nel senso che per tutti gli scrittori, tutte le persone che lavorano nel nostro ambiente, nella nostra bolla, l’intellettuale ha un ruolo. Però ci sono delle figure che hanno cambiato anche persone che non leggono mai, perché comunque la loro visione ha in qualche modo influenzato: Cassano, come giustamente dici, è una di queste. Perché quando a fine anni Novanta scrive “Il pensiero meridiano” diventa un punto di riferimento per un certo tipo di amministratori del Sud. Ma c’è un altro suo libro, meno noto, che andrebbe recuperato. Nel 2010 scrive “L’umiltà del male” – ho saputo, fra l’altro, che aveva in realtà un altro titolo che secondo me oggi sarebbe proprio attualissimo, cioè “Il narcisismo etico”. Era un libro che raccontava dei rischi del narcisismo dei buoni. Pensa come guardava avanti… E metteva in guardia dal fare i buoni che hanno sempre ragione, perché è un attimo che pensare di stare dalla parte giusta diventa narcisismo, col rischio di parlare solo a stessi e non agli altri. E, a quel punto, le cose giuste si rivelano sbagliate. E poi lui è stato alla basa della primavera pugliese. Persino l’offerta turistica che c’è in Puglia – tutti che parlano della bellezza della lentezza “venite nelle nostre masserie”– sì, oggi è diventato marketing e non credo proprio che lui ne sarebbe entusiasta, però per lui è stato un discorso pieno di senso, vero e fondamentale.

Walter Benjamin diceva che esistono due tipi di narratore, quello che viaggia e quello che è sempre rimasto fermo. Tu, in qualche modo, li fai coincidere.
Forse perché il mio stesso punto di vista è quello dello spatriato, che può essere sia uno che è andato, sia uno che non è andato. Perché, alla fine, anche se ho vissuto all’estero, e poi ho vissuto tanti anni a Roma, e poi sono stato tanti anni un pendolare fra Roma e Milano, non ho mai spostato la mia residenza. Pensa che follia! Mi sono fatto tagliare i capelli, per il 90 per cento delle volte, dal mio barbiere di Martina Franca.

Nel libro osi moltissimo anche parlando di amore, perché è una cosa che ormai si fa pochissimo. Mi pare sia addirittura diventato imbarazzante.
Sì, dovrebbe essere imbarazzante farlo. Però la loro è una cosa diversa, è una forma d’amore che si basa su questa S-patria, questo luogo senza confini: e anche questa loro relazione è una forma d’amore, anche se non stanno insieme, anche se lei e lui si innamoreranno perdutamente di altre persone. Però avranno sempre un canale speciale. In fin dei conti, questo tipo di amore forse non ha neanche una parola, anche se spesso filosofi antichi parlavano di “esercizio spirituale dell’amicizia”, con il quale si coltiva il miglioramento della propria esistenza. E probabilmente loro, forse anche inconsciamente o forse perché hanno fatto studi classici, vivono questa amicizia speciale che è una sorta di amore spatriato e irregolare. Ma è forse la situazione ideale per loro, come potrebbe esserlo anche per altre persone: chiunque è liberato, chiunque si libera dalle convenzioni e dagli schemi, che non deve fare coppia per forza tutta la vita con una sola persona e viverci insieme, può vivere con una persona speciale e complice meglio la propria esistenza.

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