Tra poco meno di un mese cade il ventennale di Genova 2001. Ai più giovanotti la città e l’anno diranno poco, mentre a quelli della mia generazione (40 e oltre) causano uno smottamento emotivo e ideale che arriva a solleticare le viscere. Chi volesse rituffarsi mente e cuore dentro quell’evento epocale dovrebbe seguire Limoni, il podcast di Internazionale a cura di Annalisa Camilli che ricostruisce quei giorni, quell’atmosfera, quel movimento storico: un lavoro che ha il sapore del necessario, e che è di debordante bellezza narrativa.
Questo per dire che il tema della globalizzazione nel frattempo non ha smesso di agitare la discussione pubblica, anche se con livelli di conflittualità meno esacerbati di quelli coagulati intorno a Genova 2001. I timori del movimento no global sono perlopiù diventati realtà: lo strapotere delle multinazionali e il neocolonialismo liberista sono ormai fenomeni sotto gli occhi di tutti, confermati dalle pur timide reazioni di tanti politici progressisti (e non) negli ultimi tempi. Ma così come la risposta no global alla globalizzazione era una risposta internazionalista, al punto che il Genova Social Forum raccoglieva circa 10.000 associazioni provenienti da ogni angolo del Pianeta, allo stesso modo oggi vediamo dipanarsi spinte culturali che da un lato rivendicano l’identità, individuale o collettiva, e dall’altro lo fanno attraverso canali e scenografie di portata globale.
Come scrive Emanuela Anechoum in Netflix & C. verso il World Cinema, uscito per Doppiozero, «Tra l’era del trumpismo, l’assalto a Capitol Hill, la Brexit e le recenti polemiche sul border control in Inghilterra, l’influenza anglo-americana a livello socioculturale risulta ultimamente sfilacciata, incerta, mentre la pandemia ha creato in molti una necessità di recuperare un legame con le proprie radici, con il concetto di casa. Vedremo come tutte queste diverse spinte si rispecchieranno nel complesso mondo dell’entertainment globalizzato – ma una cosa è certa: il talento espressivo e artistico non è prerogativa di una sola nazione o lingua. E questa semplice consapevolezza, che per troppo tempo abbiamo trascurato, può portare a una concezione della cultura davvero globale, interconnessa, stratificata – potenzialmente, una cultura collettiva, che senza rinunciare alla propria tradizione si apre al mondo: una narrazione di tutte le realtà, raccontate da tutti, a tutti».
La lunga premessa e la citazione di Anechoum mi servono a notare come anche nel mondo gastronomico potremmo osservare questo fenomeno in atto: il dialogo tra tradizione locale e rappresentazione sullo scacchiere globale oggi è ricco, pieno di spunti, profondo. Non so se nel prossimo futuro avremo tra le mani una Netflix della ricettistica, per esempio, e nel caso chi mi legge sarà testimone del fatto che l’idea arriva da qui. Ma è indubbio che, con le dovute differenze di caso in caso, il cibo sta oscillando tra rivendicazione identitaria e presenza/riconoscimento globale. In mezzo ci sono le chiusure scioviniste, le aperture culturali, le conoscenze che viaggiano costruendo luoghi di resistenza all’appiattimento, e le più becere speculazioni del capitalismo alimentare. Insomma, un po’ di tutto e il suo contrario, ma resta il fatto che mentre le barriere sono cadute, la spinta all’omologazione rimane oggetto di forte critica sociale.
Un paio di articoli che condivido questa settimana vanno letti sotto questa luce: Woke Coke: should the fizzy-drinks giant defend American democracy?, scritto da Virginia Heffernan per 1843, e Luca della Pixar è davvero un omaggio alla cultura e la cucina italiana?, di Michela Becchi per Gambero Rosso.
Ma in fondo Burp!, questa rubrica, è sempre stata questo: un modo per abbattere i confini provinciali della discussione italiana sul cibo, in pieno slancio internazionalista, e uno strumento di critica, spesso fortemente politicizzato, delle più deteriori dinamiche della globalizzazione gastronomica, soprattutto nei suoi risvolti economici e di potere. È con questo approccio che tra queste righe si tengono insieme articoli come On Lucky Peach, scritto da Alicia Kennedy per la puntata settimanale della sua newsletter, e il bellissimo rapporto di Terra! Siamo alla frutta, che denuncia come «La grande distribuzione organizzata, l’Unione Europea e la miopia delle istituzioni nazionali influenzano le nostre abitudini alimentari attraverso scelte di mercato e rigide norme. E mentre lo fanno, firmano la condanna a morte dell’intero comparto agricolo, già alle prese con il cambiamento climatico, causando la perdita di migliaia di ettari di terre coltivate».
In chiusura aggiungo due letture su tematiche molto specifiche ma anch’esse di rilievo universale. In I Grew Up With the Shame of Food Insecurity. Decades Later, I Still Obsess Over What I Eat (bon appétit) Kimi Ceridon scrive di ossessioni e disturbi alimentari, mente nell’intervista Chiara Pavan e la ristorazione al femminile: “Chef donne? Siamo viste un po’ come dei panda, animali carini e curiosi” (FoodClub) Antonio Labriola e Sonia Rotondo affrontano la questione della disparità di genere nel mondo della cucina professionale.