Sei personaggi in cerca d’autoreLa stralunata tragicommedia del M5S, ormai completamente avulso dalla realtà

Siamo spettatori di uno spettacolo mediocre in cui Grillo, Conte, Di Maio, Fico, Crimi e Paola Taverna mescolano tutto e niente, senza alcuna logica. Se prima almeno esisteva la linea dell’assalto alla politica, adesso non c’è più neanche quella

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Movimento 5 stelle, ultimo atto. Con Beppe Grillo che defenestra Giuseppe Conte, nulla da fare, lo Statuto dell’avvocato è «seicentesco» e lui «non ha la visione né le capacità per risolvere i problemi», non ci sarà alcuna votazione se non sulla rediviva Rousseau. La recita ora riserverà altri atti, sempre più lontani dalla realtà: siamo in pieno teatro del Novecento.

Per esempio. La commedia più famosa di Luigi Pirandello, “Sei personaggi in cerca d’autore” (1925) è anche la più complessa, ma non è questa la sede per entrare nei dettagli. Basti dire che alla “prima” al teatro Valle di Roma (quello “occupato” da anni) il pubblico non capì nulla e gridò «Manicomio, manicomio!»: chi erano mai questi Personaggi che arrivavano improvvisamente sulla scena e pietosamente importavano una compagnia di attori, che stava peraltro provando un’altra celebre lavoro di Pirandello – “Il gioco delle parti” –, di mettere in scena il loro dramma? Qual era la vita vera, quella degli Attori o quella dei Personaggi? O forse quella di nessuno?

Se Luigi Pirandello fosse tra noi e gli venisse voglia di leggere le pagine politiche, altro che Sei personaggi! Altro che manicomio! Ne trarrebbe però l’agevole conferma delle sue intuizioni geniali.

Già: Beppe Grillo, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Paola Taverna, Roberto Fico, Vito Crimi, eccoli i Personaggi in cerca d’autore, maschere tragicomiche di un teatro tardo-borghese in cui si perde continuamente il senso del reale e tutto diventa gioco, finzione, ambiguità, trucco, con la morbosità della lotta per il potere a legare i vari atti del dramma.

Tutto e niente si mescolano, nella commedia dei Cinque Stelle, smarrendo la logicità del discorso politico, ed è proprio per questa assurdità della vicenda che le truppe sbandano incerte se ritirarsi o dar battaglia. Staranno con Conte? O con Grillo? La vicenda rischia di diventare shakespeariana, se vista da un lato tragico. Ma in altro senso è una commedia degli equivoci, senza che brilli il lume della ragione. Potrebbe essere che alla fine perderanno tutti.

Beppe Grillo, nella vera realtà maschera teatrale figlia del teatro comico genovese (Gilberto Govi), è il Padre cioè il Personaggio tragico intorno a cui ruota la vicenda che egli, con la sua famiglia, chiede al Capocomico (Giuseppe Conte) di mettere in scena, senza che quest’ultimo arrivi a comprendere la richiesta.

Abbiamo l’età per ricordare il grande Romolo Valli nella parte del Padre, la sua espressione sofferta e consapevole di vivere una realtà non reale, il suo vano tentare di spiegare la necessità che il dramma trovi un Regista che lo racconti al mondo.

Irrompe sulla scena e dice: «Siamo qua in cerca di un autore». E il Capocomico: «D’un autore? Che autore?». «Di uno qualunque, signore». «Ma qui non c’è nessun autore, perché non abbiamo in prova nessuna commedia nuova». E la Figliastra (Paola Taverna): «Tanto meglio, tanto meglio, allora, signore! Potremmo esser noi la loro commedia nuova».

Già, ma nessuno ha capito – poveri noi spettatori – quale commedia nuova possa andare in scena dopo la caduta della commedia “vecchia”, quella dall’assalto alla Politica, che era brutta ma aveva un senso.

Questo è il punto: nessuno si perita di entrare nel merito della questione politica, nessuno che scriva un copione nuovo ma al massimo un burocratico Statuto. Cos’è, cosa deve essere, questo Movimento 5 stelle? Conte risponde con i cavilli, non con un progetto politico. E Grillo, il Padre, lo prende a sberle.

E come il Padre anche Beppe Grillo chiedeva al suo Capocomico e alla compagnia di Attori una mise en scéne che restituisca a lui la grandezza perduta, mentre il Capocomico continua a non capire e pretende di andare avanti con le prove del “Gioco delle parti”: in fin dei conti io – dice – sono reale, io decido e io solo.

La mediocrità del reale che vorrebbe imporsi sulla stralunata vicenda dei Personaggi. Di qui la confusione massima su un palcoscenico nudo e asfissiante come un romanzo di Franz Kafka ove tutti parlano e nessuno comprende. Grillo sbatte la porta.

Mentre gli altri Personaggi – Di Maio, Fico, la Taverna, Crimi – stanno lì a far da contorno nella disperazione di non sapere quale parte interpretare: Di Maio e Fico sembrano due ragazzi in cerca di avventure come gli eroi dell’“Educazione sentimentale”, nel flusso furbetto del volèmose bene che salva capra e cavoli all’insegna di un effimero politicismo, mentre Crimi è sempre l’attore che dice «Il pranzo è servito», e se ieri lo serviva a Grillo domani potrà benissimo servirlo all’avvocato Conte.

Da parte sua, quest’ultimo forse anche per deformazione professionale oltre che per un tocco di egocentrismo è sempre convinto di tirare lui i fili dei burattini, ma senza alcuna idea su come trarre la barca dalle secche, su cosa, realmente, andare a mettere in scena.

E mentre la commedia, già mediocre, va avanti in un contorcimento di situazioni sempre meno comprensibili, ecco che alla fine tocca alla Taverna, la Figliastra piuttosto ambigua, chiudere la rappresentazione con una risata lunga e stridula che lascia gli spettatori confusi, impauriti, prima che cali il sipario a segnalarci che è stata tutta una presa in giro. «Manicomio, manicomio!», appunto.

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