Riassunto: Giuseppe Conte, già segnaposto di Davide Casaleggio, già vice di Luigi Di Maio e già portatore della voce di Rocco Casalino, dice che non si merita il trattamento che sta ricevendo da Beppe Grillo e per una volta non si può che essere d’accordo con l’ex premier-per-caso: non si meritava che Grillo lo scegliesse dall’elenco del telefono per piazzarlo a Palazzo Chigi e non si meritava nemmeno di essere individuato come leader fortissimo di tutti i progressisti dagli imbelli del Partito democratico. Nessun merito, come quando si vince a tombola.
Giustamente Beppe Grillo non vuole smettere di sbigliettare e non vuole regalare all’avvocato di Volturara Appula la sua creatura, sua di Grillo, tra l’altro popolata dai talenti scovati dalla Casaleggio Associati per costruire un’impostura che non ha precedenti nella storia delle dottrine politiche, ma che alla lunga è stata svelata dalle incapacità palesi degli stessi protagonisti nonostante faccia ancora fessi i baluba di sinistra, tra cui il prossimo sindaco di Bologna e molti firmatari di appelli contro il neoliberismo.
Stando alle veline che arrivano dalla sponda Conte, quindi affidabili quanto un dpcm, Grillo non vuole cedere la titolarità della politica estera del Movimento, quella politica estera stravagante che va dalla resa al regime cinese all’amore per gli ayatollah iraniani, passando dal Venezuela che è stato il modello Roma della Raggi ma con i cinghiali al posto del petrolio, fino all’antieuropeismo da operetta, all’annessione russa della Crimea e a tutte le banalità da terzomondismo ginnasiale di cui scrive Dibba.
Insomma Grillo difenderebbe una politica estera da pazzi, anti italiana e anti occidentale, ma non più credibile della linea putinian-trumpiana-cinese del Conte di governo. In tutto questo, Luigi Di Maio e Manlio Di Stefano, due interpreti di questo delirio, sono ministro e sottosegretario agli Esteri, mentre quell’altro che non crede allo sbarco sulla Luna è sottosegretario all’Interno, anche se adesso che a Palazzo Chigi c’è Draghi e non più Conte nessuno di loro tocca più palla.
Questo spettacolo circense messo in piedi da Grillo e da Casaleggio sarà ricordato nei libri di storia quanto quello leggendario di Buffalo Bill, con Fofò Dj al posto del suo amico culo di gomma famoso meccanico, con Di Battista mangiatore di fuoco, con la donna cannone Vito Crimi senza fame e senza sete, senza aria e senza rete, senza arte e senza mete.
Nel circo a cinque stelle un ruolo ce l’ha avuto, appunto, anche Giuseppe Conte, personaggio pirandelliano come nessuno mai. Conte è passato da Pirandello a Buñuel nel momento esatto in cui ha creduto di potersi emancipare dall’impresario che sbiglietta, non accorgendosi di essere rimasto un burattino senza fili associati, privo della sponda di Salvini e della scialuppa di salvataggio di Zingaretti, abbandonato al suo destino dagli amici Trump e Putin.
Gli è rimasto solo Marco Travaglio, il quale vive il suo momento magico e se ne compiace come neanche davanti a un mandato di cattura. Travaglio, per questo, va ringraziato moltissimo perché facendo credere a Conte di essere diventato il leader fortissimo di tutti i babbei è riuscito ad arrestare (pardon) il processo (pardon) ricostituente di quel che è rimasto dei Cinquestelle, il movimento che, parlandone da vivo, voleva fare dell’aula parlamentare sorda e grigia un bivacco di manipoli, sprangandola per costituire un governo di soli grillini, ma è finito col dimostrare a tutti di essere il partito più trasformista della storia unitaria italiana.
I grillini hanno intossicato il dibattito pubblico, vilipeso le istituzioni e purtroppo anche squarciato il Parlamento con la complicità del Partito democratico per poi attaccarvisi come parassiti analfabeti della democrazia. Grillo è un guitto, Casaleggio un mattacchione, Conte una caricatura di Azzeccagarbugli, Di Maio un furbetto e tutti gli altri dei quaquaraquà che noi umani non possiamo immaginare al largo dei bastioni di Chigi: o davvero qualcuno avrebbe mai potuto pensare di vivere un tempo in cui Paola Taverna è vicepresidente del Senato, Alfonso Bonafede ministro della Giustizia, Laura Castelli vicesegretario all’Economia, Mimmo Parisi from Mississippi alle politiche attive del lavoro e tutto il resto del cocuzzaro al posto sbagliato al momento sbagliato?
Impresario e commedianti probabilmente troveranno un accordino per un altro giro di giostra, ma in ogni caso sono tutti destinati a tornare nell’anonimato degli elenchi del telefono. La questione, di nuovo, è quella del Partito democratico: resta incomprensibile perché il Pd si ostini da oltre un anno a tentare di salvare i Cinquestelle dall’autocombustione.
Non so se sia fair play o cecità ideologica, ma anziché accelerare la crisi di un partito concorrente che per quasi un decennio ha professato il superamento della democrazia rappresentativa e dei partiti costituzionali, il Pd si affanna a tenerlo in vita. L’unica spiegazione è che l’odio nei confronti di Matteo Renzi e Carlo Calenda, e più in generale dello spirito originario del Partito democratico, offuschi la vista, alimenti la nostalgia dell’avvocato del popolo e dei suoi ominicchi e lo costringa a non fare l’unica cosa sensata, semplice, adulta che dovrebbe fare: lasciar perdere gli eversori grillini, archiviare le recrudescenze anticapitaliste e costruire una rappresentanza politica intorno alla straordinaria esperienza del governo Draghi.