La lezione di KabulPerché la missione italiana (e occidentale) in Afghanistan non è stata un errore

Le truppe italiane hanno lasciato un Paese che non è affatto uguale a quello che avevano trovato e in cui è migliorata in termini relativi la speranza e la qualità di vita della popolazione. Gli ultimi vent’anni hanno dimostrato che gli effetti del disimpegno europeo dagli scenari di crisi locali si sono tutti riproposti in chiave globale come rischi di sicurezza, strategici ed economici

LaPresse

Non c’è nessuno che possa festeggiare l’ammaina bandiera alla base di Camp Arena e il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan come il coronamento di una missione compiuta. Basti dire che l’urgenza più impellente, per l’Italia e per gli altri stati della coalizione che dal 2001 si è impegnata in un generoso, ma largamente infruttuoso nation building, è quella di portare in salvo tutti gli afghani (a partire dagli interpreti), che hanno lavorato per i contingenti alleati e che oggi sono minacciati di morte dai talebani.

Le truppe italiane lasciano però un Paese, che non è affatto uguale a quello che avevano trovato e in cui è migliorata in termini relativi la speranza e la qualità di vita della popolazione e, in particolare, la condizione delle donne, che hanno al momento un sistema di garanzie legali inimmaginabili sotto il regime del mullah Umar. Ma l’accordo coi talebani è scritto sulla sabbia e la possibilità di un quasi immediato ritorno al passato è tutt’altro che un’ipotesi remota.

Se non c’è chi festeggia il successo, c’è però chi si compiace dell’insuccesso e ne trae una indiretta conferma della propria storica opposizione all’interventismo alleato, che dopo l’11 settembre rispose militarmente all’attacco contro l’Occidente facendo in modo che Kabul cessasse di essere la capitale ufficiale del terrorismo qaedista. In particolare, chi si rallegra del mesto ritorno a casa delle truppe occidentali irride il suicidio ideologico di un’America che, prefiggendosi di “esportare la democrazia”, è finita intrappolata nella propria stessa rete e sconfitta dalle proprie stesse smisurate pretese.

A parte il fatto che suona sempre grottesca la censura dell’idealismo democratico in nome del realismo politico da parte di aree culturalmente pacifiste, occorrerebbe quantomeno leggere premesse e risultati della missione in Afghanistan con maggiore riguardo al contesto storico in cui venne decisa (c’erano davvero alternative?) e soprattutto ai risultati (nulli) che un approccio diverso – e meno “interventistico” – ha consentito di conseguire in altre aree di rischio e di instabilità connotate da un’analoga caratteristica: diventare una piattaforma di attacco, non necessariamente terroristica, agli interessi occidentali, europei e italiani.

Gli ultimi vent’anni hanno infatti anche dimostrato che gli effetti del disimpegno europeo e occidentale dagli scenari di crisi (apparentemente) locali – e quindi (apparentemente) fuori dalla porta di casa – si sono tutti riproposti in chiave globale come rischi di sicurezza, strategici ed economici. La fine del mondo bipolare è stata anche la fine di un mondo in cui la politica internazionale del mondo libero era interamente compresa nell’alternativa tra solidarietà atlantica e Yankee go home. Adesso, ci sono altri attori, non ci sono altri buoni, ma ci sono molti altri cattivi, con un’agenda chiaramente espansionistica in termini politici, se non territoriali.

Giusto per fare un esempio, se è servito a poco andare in Afghanistan (se non almeno a fare avere una vita un po’ meno indecente a milioni di donne, risultato non disprezzabile), è servito ancora meno non andare in Siria (e lasciare che ci andassero russi, turchi e iraniani e prima che ci si insediasse l’Isis). Lo stesso si può dire, con specifico riguardo all’Italia, dello scenario libico dove i nostri (e non solo nostri) realisti non hanno saputo inscenare niente di meglio che il compianto per la spintarella alla deposizione di Gheddafi, considerando come un fenomeno scontato che poi il Paese venisse sbocconcellato tra fazioni con diverse committenze e protezioni straniere, con l’Italia relegata nel ruolo di agente pagatore delle milizie terroristico-mafiose in funzione anti-migratoria.

L’idea che nelle aree di crisi un ordine strategico compatibile con i nostri interessi (comunque li si voglia intendere) possa sortire evoluzionisticamente da un naturale e sovrano mattatoio locale è molto più ingenua (oltre che più cinica) della presa d’atto che la rinuncia all’impegno esterno, potenzialmente militare, è di fatto l’abdicazione a qualunque ambizione strategica.

È un problema che ha certamente l’Italia – che continua a vivere come se dall’altra sponda del Mediterraneo ci si potesse isolare semplicemente sollevando un invisibile ponte levatoio – ma è un problema che soprattutto ha l’intera Europa, che continua a vivere lo spostamento a est del baricentro americano come un tradimento e non anche come un disegno che la riguarda in termini strategici e, nello stesso tempo, ritarda in modo sempre più insostenibile e colpevole la costruzione di uno strumento militare comune, cioè non riconducibile ai vari stati membri ma all’Unione nel suo insieme.

Insomma se il ritiro poco glorioso dall’Afghanistan non dimostra che esserci andati e restati vent’anni sia stato un errore e – meno che mai – una colpa, non è una garanzia di lungimiranza, né di merito il pacifismo isolazionista da comunisti anni ’50 (del vecchio secolo) e sovranisti anni ’20 (del secolo nuovo).

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