Nonna KateWinslet è meno supercalifragilistica di Sharon Stone ma non prendeteci per il culo, grazie

In “Omicidio a Easttown” l’attrice inglese mostra la “pancia sballonzolante” e le sue “rughe”. Ohhhh, è un’eroina! No, è solo la più grande truffa mai architettata dal diavolo: scritturare per le pubblicità di prodotti cosmetici e per le serie tv delle star bioniche nostre coetanee fingendo che siano delle donne invecchiate, ingrassate e innormalite come noi

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Chissà se qualche esperto di comunicazione ha studiato il meccanismo psicologico della stanchezza preventiva nel villaggio globale; se di una serie televisiva cominci a sentir parlare prima ancora che vada in onda in America, quando arriva in Italia non ti sembra d’averla già vista cento volte?

Di “Omicidio a Easttown”, che in Italia arriva mercoledì, su Sky, io sento parlare da tre mesi. Da prima che andasse in onda negli Stati Uniti, da prima di sapere di che si trattasse: da quando si è saputo che nello sceneggiato Kate Winslet è nonna, e c’è stata una piccola ma vibrantemente ottusa ondata d’indignazione che lamentava a nessuno venisse in mente di proporre a Leonardo DiCaprio ruoli da nonno.

DiCaprio e Winslet sono diventati famosi insieme, nel 1997. In “Titanic” lui era il bello del momento e lei era una cicciotta dalla pelle liscia. Ventiquattro anni dopo lui, nelle foto di scena del nuovo Scorsese, sembra il nonno di sé stesso; lei, in “Omicidio a Easttown”, è la strafiga che è diventata da adulta. E infatti è appena diventata testimonial di L’Oréal, dopo esserlo stata del profumo di Lancôme e di non so più quanti altri prodotti di quelli per vendere i quali solo una cosa devi essere: gnocca.

Tutte queste cose sono evidenti a chiunque abbia visto un’immagine adulta di Kate Winslet, ma non a chi legga i giornali. Giornali che hanno passato l’ultima settimana a riprendere con titoli che gridavano all’eroismo l’intervista che le ha fatto Maureen Dowd dopo la messa in onda dell’ultima puntata in America. Un passaggio specifico dell’intervista. Questo: «Quando Craig Zobel, il regista, le ha assicurato che avrebbe tagliato “la pancia sballonzolante” nella sua scena di sesso con Guy Pearce, gli ha detto “Non osare”. Ha anche bocciato il poster promozionale, due volte, perché era troppo ritoccato. “Mi dicevano: davvero, Kate, non si può, e io dicevo: ragazzi, so esattamente quante rughe ho intorno agli occhi, rimettetemele tutte”».

Ci sono tre cose da dire, di questo eroico paragrafo.

L’ultima è che la frase sulle rughe è difficile considerarla se non in forma di parodia, grazie alla frase della Magnani con cui ci hanno infelicitato per decenni, finalmente irrisa dagli sketch di Emanuela Fanelli in “Una pezza di Lundini”. Peccato che il “Saturday Night Live” abbia fatto la sua parodia di “Easttown” prima che la protagonista gli fornisse tanto materiale. Si sono dovuti accontentare di sbeffeggiarne la dizione (Easttown è in Pennsylvania, dove chiudono le “o”: agli americani piace molto vedere attori inglesi che si sforzano di fare accenti della provincia statunitense).

La seconda è: ve la vedete Meryl Streep che rimarca quanto si è imbruttita per un ruolo?

La prima è: Kate Winslet ha avuto tre figli e ha quarantacinque anni; ho amiche che, al lordo d’un solo parto, darebbero il loro unicogenito perché il loro disfacimento fisico consistesse in quel misero rotolino che si vede nella scena di sesso, quell’indicatore di disfacimento valido solo per chi non abbia mai visto un vero disfacimento.

Forse ha ragione Cristina Fogazzi quando dice che la più gran truffa che il diavolo (o quella sua stretta parente che è l’industria cosmetica) abbia mai architettato è farci credere d’usare come testimonial donne come noi – invecchiate, ingrassate, innormalite – quando invece usa nostre coetanee evidentemente bioniche. Sharon Stone, che era l’esempio citato dalla Fogazzi, è più supercalifragilistica di Winslet, ma il concetto è sempre quello: ci prendete per il culo.

E infatti, nella stessa intervista sul New York Times, Winslet ammette che non c’era senza trucco che bastasse, per temperare la sua naturale fighezza: «Abbiamo usato delle luci che mi facessero la pelle più brutta».

Erano, si direbbe, molto determinati a distinguersi da “The Undoing”: anche lì non si capiva chi avesse ucciso la ragazza, anche lì la tiravano in lungo con troppe puntate e molte false piste, ma noi qui nel paesino in Pennsylvania siamo diversi dai ricchi di Manhattan, noi siamo brutti, noi siamo poveri, noi non abbiamo i cappotti avvitati (stessa intervista: «“Quando trovavamo qualcosa che mi stesse male”, dice la signora Winslet, “saltavamo dalla gioia: sì! Questo va bene!”. Lasciava i vestiti appallottolati sul pavimento della roulotte alla fine della giornata di ripresa, “e restavano a spiegazzarsi tutta notte. Non li lavavamo, non li appendevamo. Mai”»).

Sì, diranno i miei piccoli lettori, ma devo o no investire tre mercoledì sera (Sky manda due puntate alla volta, perché nella Costituzione italiana c’è evidentemente un cavillo che vieta le prime serate di un’ora) a vedere questo giallo? O è solo per rimirare che Kate è invecchiata meglio di me ma s’impegna a far finta di no? O è solo perché ci hanno infilato dentro tutti i temi importanti, la droga, il suicidio, la pedofilia dei preti, le gravidanze delle adolescenti?

C’è una scena in cui Mare (abbreviazione di Marianne, nome della detective interpretata da Winslet) è sul divano, è appena tornata a casa dopo una lunga giornata di lavoro, si è fermata a prendersi un panino, e sta per azzannarlo. Ma il vetro della finestra dietro di lei viene infranto da un compaesano che, insoddisfatto delle sue indagini, ritiene di farglielo sapere lanciandole dentro casa un boccione da quattro litri di latte. I vetri schizzano sul tavolo, il latte si rovescia. Kate/Mare scansa le schegge, e continua a mangiare. Ecco, io lo guarderei solo per quella scena lì. Quella che non ti hanno raccontato mille titoli sulle rughe e ipotesi sull’assassino. Quella che funzionerebbe anche se una costumista di scena le avesse stirato i vestiti.

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