Sapore di novecentitudineBonolis, Ruggeri e quello che gli intellettuali non dicono

Toccherebbe agli illuminati liberali e di sinistra fare in modo che sui giornali e nella vita pubblica tornassero le parole della realtà. Ma non possono permetterselo perché hanno libri da vendere e presentabilità da mantenere, quindi se ne occupa la destra che, fortunella, non subisce la gogna e continua a fatturare

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Per fortuna Ferragosto casca di domenica, e per i prossimi sei mesi non ci tocca occuparci dell’aggravamento della qualità del dibattito pubblico durante i ponti.

Non che normalmente noialtri si abiti un’epoca in cui la civiltà della conversazione scintilla, ma ho l’impressione che il già troppo tempo libero, ulteriormente liberato dalle festività, non ci faccia per niente bene.

Ho un’amica che insegna in un liceo. Dice che la parola più usata dai suoi colleghi è «mansionario». La tal cosa non la fanno perché non è prevista dal mansionario. Si chiede spesso come mai vadano a scuola, considerato che nel mansionario non c’è scritto che devono percorrere il tragitto da casa loro al posto in cui lavorano. Di tutta la polemica sulla targa col nome sbagliato di Carlo Azeglio Ciampi, avrei trovato interessante solo una discussione sul mansionario: chi ha il compito di controllare l’ortografia? Quello che scolpisce la targa? Quello che la ordina? Quello che si trova una trascrizione sbagliata e non pensa di correggerla?

Ho un amico il cui libro sta per uscire. Il mio consiglio promozionale è quello di entrare in una Feltrinelli, prendere il suo libro, e non farci quel che fanno di solito gli autori poco venduti: spostare le copie in posizioni più visibili – gesto che ha solo l’esito d’innervosire librai che devono rimettere a posto, e nessun risultato commerciale; incredibilmente, se il mio libro fosse più in vista di quello della Auci, i lettori comunque comprerebbero di più la Auci.

Gli ho suggerito di collocare invece il suo libro di fianco al Mein Kampf, fare una foto, postarla con un commento tipo «Ecco a cosa vengo accostato in libreria, discriminazione, diffamazione, ingiuria». Se abbocchiamo allo scandalo dei libri della Meloni esposti a testa in giù, mica ci faremo scappare questa polemica?

Ho un’amica che conosce Enrico Ruggeri, a proposito di libri, e le ho chiesto l’indirizzo per mandargli il mio. Pur avendo molto apprezzato la sua versione dei fatti sulla turpe notte della nazionale cantanti, non potevo credere che fosse così fesso da metterci quella frase da 50 sfumature d’incapacità dialettica sui calciatori maschi eccitati dall’idea degli arbitri femmine. Come si fa a usare una frase del genere, nel 2021? Come si fa a non aver ancora capito i meccanismi di base della polemica social, a non sapere che si attaccheranno alla novecentitudine di quella frase e tutto il resto sparirà?

Ho un amico che dice che conta solo il talento. Che tutta questa dinamica dello scusarsi, delle parole sbagliate, delle battute offensive, vale solo se sei scarso nel tuo lavoro. Che è per quello che Checco Zalone non si scusa: perché coloro che si divertono, quando la battuta è molto buona, sono comunque in sovrannumero rispetto a quelli che si offendono, e per la vecha vacinada abbiamo riso di più di quanti siano quelli che si sono risentiti.

Ho un amico (un altro) che ieri mi ha chiesto allora come la mettevamo con Bonolis, che sì per carità grande talento, però la sua battutaccia su Carlo Conti convocato al posto di non so che giocatore nero non ha attirato una frazione delle polemiche di Pio e Amedeo (parlandone da vivi), e non è che fosse proprio una battuta perdonabile in nome della sua dirompenza comica. Ho chiesto chi si sarebbe dovuto offendere per la battuta sulla pelle scura di Carlo Conti, mi hanno sbuffato «E allora di Berlusconi che diceva Obama abbronzato perché ci siamo indignati?», perché c’è chi può (permettersi la novecentitudine) e chi non può?

Sì, ho persino amici secondo i quali non ci sono abbastanza polemiche, ma è solo perché non osservano con attenzione. La minoranza che aveva polemizzato con la battuta su Conti convocato in quota afroitaliana era stata oscurata dalla maggioranza di tifosi di non so quale squadra che Bonolis aveva accusato di simulazioni di fallo. All’italiano dell’etnia non importa granché, ma la squadra devi lasciargliela stare più ancora che la mamma.

Per la polemica razziale tocca aspettare Diet Prada, l’account Instagram americano al quale abbiamo affidato la moralizzazione della prima serata italiana: dopo la Hunziker, l’interpol dei cuoricini arriverà a redarguire anche Bonolis? E a quel punto ci toccherà indignarci in ritardo?

Non ho niente contro l’indignazione, ho molti amici che s’indignano. Un ponte fa, erano impegnati a indignarsi per il Senato che approvava una qualche legge stregonesca sull’agricoltura biodinamica, qualunque cosa significhi. Tutti a favore, compattamente, tranne Elena Cattaneo, incidentalmente scienziata. Se tutto il Senato è a favore e tutto il collegio di Twitter è contro, significa che i collegi elettorali sono bolle?

Se cito quella vecchia intervista in cui David Mamet diceva che si ha sempre bisogno d’un nemico pubblico, di qualcosa con cui prendersela, d’un’incarnazione del male, e se non sono gli ebrei sarà il fumo passivo, o i grassi transgenici, o il riscaldamento globale, verrò accusata d’antisemitismo? (E di transfobia per i grassi). E, se quell’intervista non avesse dieci anni ma dieci giorni, quanti ponti avremmo passato a chiedere la cancellazione di Mamet, nonostante il talento?

Esistono polemiche culturali che non siano copie di mille riassunti, temi che non siano già stati dibattuti (almeno) cinquant’anni fa, ma con più ipotassi e meno cancelletti? Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, nel loro Manifesto dei LiberoParolisti, ricordano di quando del linguaggio sterilizzato si occupava Natalia Ginzburg (oggi se ne occupa Soncini: che decadenza, la realtà). «Così accade che la gente abbia un linguaggio suo, un linguaggio dove gli spazzini sono spazzini e i ciechi sono ciechi, e però trova quotidianamente intorno a sé un linguaggio artificioso, e se apre un giornale non incontra il proprio linguaggio ma l’altro. Un linguaggio fatto di quelle che Wittgenstein chiamava parole-cadaveri. Per docilità, per ubbidienza – la gente è spesso ubbidiente e docile – ci si studia di adoperare quei cadaveri di parole quando si parla in pubblico o comunque a voce alta, e il nostro vero linguaggio lo conserviamo dentro di noi clandestino. Sembra un problema insignificante ma non lo è. Il linguaggio delle parole-cadaveri ha contribuito a creare una distanza incolmabile fra il vivo pensiero della gente e la società pubblica. Toccherebbe agli intellettuali sgomberare il suolo da tutte queste parole-cadaveri, seppellirle e fare in modo che sui giornali e nella vita pubblica riappaiano le parole della realtà».

Ma gli intellettuali non possono permetterselo: hanno dei libri da vendere, e già ci riescono pochino, nonostante le polemiche culturali accuratamente costruite (che non hanno aiutato le vendite né del libro di Rula Jebreal né di quello dei Jackal, intitolato – che coincidenza – Non siamo mai stati bravi a giocare a pallone: millequattrocento modeste copie in due mesi, fino alla polemica sulla squadra di pallone dei cantanti che li avrebbe esclusi per sessismo).

Il libro della Meloni, invece, vende nonostante la debolezza della polemica sulle copie a testa in giù. Resta solo la destra, a difendere le espressioni non cadaveriche senza rincorrere ristampe posizionandosi dalla parte presentabile delle guerre culturali. La destra, oppure quelli – Zalone, Bonolis – troppo impegnati a fatturare per occuparsi di quale sia il lato presentabile della disputa.