Dopo la sentenza IlvaNichi Vendola contro la deriva del «mainstream giustizialista»

L’ex governatore della Puglia, condannato in primo grado per concussione aggravata, ricorda di essere stato tra i primi a sollevare il tema dell’inquinamento a Taranto: «C’è un ambientalismo che andrebbe bonificato dalla demagogia e dalla incompetenza», dice

«Deriva giustizialista». «Ecomostro giudiziario». «Barbarie». L’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola commenta così in diverse interviste sui quotidiani la sentenza che lo condanna a tre anni e mezzo in primo grado per concussione aggravata nel processo “Ambiente Svenduto” sull’ex Ilva di Taranto. A nove anni dal sequestro, sono arrivate le pene, con 22 e 20 di carcere per Fabio e Nicola Riva. Per i giudici di primo grado, Vendola avfrebbe esercitato pressioni sull’Arpa, l’agenzia pugliese per la protezione ambientale, affinché attenuasse la portata delle relazioni sulle emissioni dello stabilimento siderurgico.

Ma Vendola, dopo aver combattuto l’inquinamento a Taranto e fondato Sinistra ecologia e libertà (Sel), non accetta di finire insieme a quelli che hanno avvelenato la città. Da subito ha criticato la sentenza. E a Repubblica dice: «Quelli che hanno venduto l’ambiente di Taranto e non solo stanno godendo… sono finito in una tagliola giudiziaria. Aspettavo con ansia la fine di un incubo che dura da troppi anni. Invece subisco una condanna assurda, che avalla un’accusa grottesca. E io che ai Riva non ho mai fatto sconti e dai Riva (a differenza di tanti) non ho preso neppure un euro, a questa sentenza mi ribello». Per Vendola, la sentenza «non è solo ingiusta, è una barbarie», che «calpesta la verità per me e per chi ha lavorato con me». «Un grave delitto contro la verità», commenta sul Corriere.

Ora, dice al Foglio, «smetterò di stare zitto e di essere ossequioso verso una giustizia senza verità». E spiega: «Io sono accusato di una concussione “implicita”, ed è implicita proprio perché non c’è prova, e chi l’avrebbe subita, uno scienziato come Assennato, è accusato di avermi favoreggiato poiché nega di essere mai stato minacciato da me. Ma poi l’Arpa ha ammorbidito la sua condotta con l’Ilva? Le prove dicono l’esatto contrario».

Vendola ricorda che nel 2010 a ferragosto il governo nazionale «con un decreto spostò di anni l’entrata in vigore della direttiva sulla qualità dell’aria. Noi varammo una norma perché fosse subito in vigore: e lo facemmo pur non avendo quella competenza che in materia ambientale è esclusivamente dello Stato… ecco, mentre faccio questo, nello stesso momento misteriosamente minaccio Assennato: direi che siamo al manicomio».

L’ex governatore confessa: «Ho lasciato la scena pubblica per questa accusa, il mio partito è stato sciolto di conseguenza, perché non sopportavo l’idea di qualche moralista da marciapiede che mi urlava: impresentabile! E perché ho sempre pensato che ci si difende in tribunale: e questo oggi capisco che è un errore. Io avevo messo nel conto tutto, tranne questo: che potesse colpirmi alle gambe un mafioso, non che potesse colpirmi al cuore una procura».

Vendola dice che nel caso Ilva «c’è stata una malevola torsione dell’inchiesta verso una deriva che è quella del mainstream giustizialista. Io penso che sia importante che finisca la stagione della irresponsabilità ambientale di pezzi del capitalismo nostrano, ma non so come abbiano potuto mettermi insieme agli inquinatori sul banco degli accusati. La gogna è il tifo colpevolista, è la lapidazione costruita in un continuo gioco di carambola tra alcuni pubblici ministeri e parti del giornalismo». E poi, continua, «c’è un ambientalismo che andrebbe bonificato dalla demagogia e dalla incompetenza», perché «anche le superstizioni o i pregiudizi o l’ignoranza inquinano l’ambiente».

E ricorda: «Io sono Nichi Vendola, uno che ha combattuto faccia a faccia contro i clan mafiosi e che ha denunciato le collusioni dello Stato e della magistratura, uno che le vacanze da uomo di potere le ha fatte a proprie spese in Chiapas difendendo gli indigeni o in Colombia al processo di pace o a Sarajevo sotto le bombe. Sono uno che pregava mano nella mano con Rita Borsellino e Antonino Caponnetto sulla tomba di don Tonino Bello. Sono quello che scoperchiò il verminaio di Messina, che ha indagato sull’omicidio di Graziella Campagna o di Peppino Impastato, e quello che in Puglia faceva montare i palchi nei quartieri dei boss e li sfidava in piazza». E ancora: «Sempre quello che lo Stato ha messo sotto tutela per un quarto di secolo. E ancora quello che a Taranto non ha esitato, dopo decenni di omertà, a parlare dei veleni e del cancro e a operare per una svolta».

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