I rapporti tra Stati Uniti e Cina negli ultimi anni sono stati freddi e distanti sotto molti aspetti, soprattutto durante l’amministrazione Trump. Ma anche con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, Washington non sembra intenzionata a cedere di un passo: Pechino resta un problema per la democrazia, in America e in ogni altra parte del mondo.
Un approccio troppo rigido, però, potrebbe essere pericoloso: rischia di creare una dicotomia bene-male senza margine di discussione e metterebbe gli Stati Uniti in un conflitto – non armato, ma politico, diplomatico, ideologico – contro quello che diventerebbe a tutti gli effetti un nemico. Insomma, forse gli Stati Uniti farebbero bene a non considerare la competizione con la Cina come un testa a testa tra sistemi democratici e autocratici da vincere a tutti i costi, come la Guerra Fredda con l’Unione Sovietica.
È la tesi contenuta in un lungo articolo di Foreign Affairs scritto a quattro mani da Thomas Pepinsky e Jessica Chen Weiss, della Cornell University. Nella loro analisi, i due autori prendono in considerazione anche le ricadute che avrebbe a livello nazionale un approccio troppo diretto e concorrenziale rispetto a Pechino: «Invocare la concorrenza con la Cina può sembrare un modo interessante per costruire un sostegno bipartisan, ma è improbabile che tali appelli convincano i membri repubblicani del Congresso (spesso fermi su ostruzionismo a oltranza, ndr).
Inoltre, non importa con quanta cura l’amministrazione distingua tra il governo cinese e le persone di etnia cinese, questa retorica del bene contro il male crea un terreno fertile per la xenofobia, il razzismo anti-asiatico e la violenza contro chiunque sia percepito come straniero».
C’è prima di tutto un errore di fondo nella definizione della concorrenza tra Stati Uniti e Cina come una competizione tra due sistemi contrapposti: finisce sempre per sopravvalutare la capacità attrattiva di Pechino e sminuire il ruolo che, invece, potrebbe avere Washington in un impegno diplomatico con molti Stati in Asia, nel Pacifico e anche in Africa.
«Per questo la difesa dei valori americani e il raggiungimento di una coesistenza pacifica, anche se competitiva, con la Cina richiede un approccio più pragmatico», si legge su Foreign Affairs.
È importante quindi spiegare come si sta muovendo la Cina, uno Stato che sa mascherare molto bene i suoi difetti. Anche in un anno di crisi mondiale, mentre gli Stati Uniti sono stati devastati dai disordini politici e da uno dei peggiori focolai al mondo di Covid-19, i leader cinesi hanno raddoppiato i loro sforzi per proiettare l’immagine di un governo in totale controllo della situazione. E lo hanno fatto nonostante l’insicurezza politica e i timori di una sistematica fragilità ideologica della società cinese.
Negli ultimi due decenni del ’900 il Partito Comunista Cinese ha abbracciato il capitalismo, ha tollerato la disuguaglianza, e accettato un divario sempre maggiore tra i suoi ideali di fondo e la realtà della sua quotidianità (che lo ha esposto ad accuse di ipocrisia). Era prezzo da pagare in cambio di una rapida crescita economica.
Al momento, quindi il Pcc è bloccato in una lotta ideologica per difendere la propria legittimità interna e scongiurare la democratizzazione del Paese. Le sue aspirazioni sono state più nazionalistiche che globali. Questi sforzi hanno avuto un effetto corrosivo sulla libertà di parola, ma non costituiscono una minaccia esistenziale per la democrazia liberale in tutto il mondo.
Se la sfida interna di Pechino è ideologica, le armi della politica estera sono molto più realiste, coercitive.
Nel Sud-Est asiatico, ad esempio, il comportamento di Pechino non rivela favoritismi nei confronti di regimi con basi ideologiche simili. Come la Cina, il Vietnam è governato da un regime autoritario a partito unico, ufficialmente di orientamento comunista, ma ha aperto e intrapreso un significativo processo di riforma economica dagli anni ’80. Infatti il Vietnam si è costantemente opposto alle attività di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e ha costruito la propria rete 5G per evitare di collaborare con il gigante tecnologico cinese Huawei.
In Malesia, per citare un esempio opposto, c’è una maggioranza musulmana che si oppone fermamente al comunismo. Eppure lì ci sono forti legami economici con la Cina e anche una certa condiscendenza in termini di relazioni diplomatiche.
In tutto il mondo gli sforzi della Cina hanno una direzione chiara: rendere l’ordine globale un posto più ospitale, adeguato, coerente con i suoi interessi.
«Ma un mondo sicuro per l’autocrazia non preclude un mondo sicuro per la democrazia. Affermare i valori liberali in tutto il pianeta è importante, ma la costruzione di una grande strategia statunitense per combattere l’autoritarismo potrebbe ritorcersi contro, provocando un’escalation cinese sul fronte ideologico e avvicinando altri Paesi alla Cina», scrive Foreign Affairs.
Allora gli Stati Uniti hanno davanti un’opzione più efficace: possono provare a plasmare l’ordine globale con un approccio di soft power più che di hard power e rendere il mondo un posto sempre meno adeguato all’autocrazia cinese.
Intanto gli Stati Uniti non devono fare l’errore di creare una coalizione democratica anti-cinese, soprattutto per due motivi. Il primo: fissare un livello troppo alto per definire un Paese veramente democratico potrebbe essere controproducente e indicare alcuni Stati inevitabilmente come avversari. Quindi il secondo motivo: al contrario, includere in una lista di Paesi democratici anche quelli che non lo sono finirebbe per minare la credibilità e la leadership internazionale degli Stati Uniti.
Poi c’è un altro fattore da considerare, sempre nella chiave di lettura della sopravvalutazione dell’ideologia cinese: «Siamo tentati dal vedere la crescente influenza della Cina come il germe di un crescente autoritarismo in tutto il mondo, ma più spesso le radici degli autoritarismi nazionali risiedono in cause interne: risentimento popolare per la perdita di potere, l’immigrazione incontrollata, le minoranze, il ripudio delle élite politiche e intellettuali, anche la polarizzazione e la disinformazione dovute a una sfera digitale poco regolata», si legge nell’articolo di Foreign Affairs.
Gli Stati Uniti possono difendere la democrazia senza fare dell’ideologia il fulcro del loro approccio nei confronti della Cina. Anzi, gli Stati Uniti dovrebbero impegnarsi a dare l’esempio, mettere ordine nella propria casa democratica, e tenere libere elezioni senza tentativi di colpi di Stato è la base di questo discorso.
A livello internazionale, l’ascesa della Cina non richiede la distruzione totale dell’ordine mondiale esistente. L’amministrazione Biden dovrebbe lavorare per mantenere la Cina all’interno di un ordine internazionale flessibile e controllato, perché se Pechino percepisce un tentativo di coercizione da parte di Washington si potrebbe arrivare a quello scontro che gli Stati Uniti devono evitare.
«Washington – concludono gli autori dell’articolo – dovrebbe concentrarsi sulla moderazione dell’esercizio unilaterale del potere, attraverso mezzi militari, economici o informatici. Gli Stati Uniti dovrebbero anche lavorare per concentrare l’attenzione globale su questioni comuni come il clima e la salute, che avranno benefici a catena per la competitività e l’influenza degli Stati Uniti».