Effetto boomerangPerché in Asia molti paesi non allentano le restrizioni anti covid

Gran parte del continente asiatico ha adottato una linea dura, con limitazioni molto stringenti, fin dall’inizio della pandemia. Adesso però le campagne di vaccinazione non decollano e l’unica soluzione attuata dai governi è un aumento dei controlli e delle misure di sicurezza

AP / Lapresse

Dal 28 giugno in Italia non sarà più obbligatorio l’uso delle mascherine all’aperto. Salvo in caso di assembramenti. L’uso di dispositivi di protezione in condizioni in cui le probabilità di contagio sono molto basse è una cosa di cui si discute molto soprattutto in Europa. Da qualche giorno l’obbligo di indossare la mascherina all’aperto è caduto anche in Francia, Belgio, Polonia e in altri Paesi, con la Spagna che si aggiungerà il 26 giugno. Ma in altre parti del mondo non c’è il minimo accenno di allentamento delle restrizioni, nonostante il miglioramento della situazione sanitaria.

In alcuni Stati dell’Asia, ad esempio, è ancora in vigore anche il periodo di quarantena obbligatoria per chi arriva dall’estero, anche se completamente vaccinato. Le mascherine sono obbligatorie ovunque, e i controlli sull’eventuale trasgressione dei regolamenti sono rigidissimi.

È un approccio chiamato “Zero Covid” che si è diffuso fin dall’inizio della pandemia in buona parte del continente asiatico e consiste nel contrastare il virus facendo diminuire il numero di casi a tal punto da impedirne la diffusione.

È importante considerare che in molti Stati è ancora forte il ricordo dell’epidemia di Sars del 2003, quindi i cittadini non hanno avuto problemi ad accettare le indicazioni dei governi, per quanto stringenti. Un caso che accomuna Hong Kong – che ha registrato meno di 12mila casi e 210 decessi su una popolazione di circa 7,5 milioni di persone, e non si registrano morti per Covid da quasi due mesi – a Singapore, il Vietnam, Taiwan, la Corea del Sud, ma anche Australia, Nuova Zelanda e molte aree della Cina continentale.

La ricetta, più o meno, è la stessa per tutti: quarantene obbligatorie, test a tappeto, distanziamento sociale e mascherine, oltre a multe e cancellazione dei permessi di lavoro per i trasgressori. Per il momento questa strategia sembra aver evitato i numeri drammatici di molti Stati europei o degli Stati Uniti, che hanno visto i loro sistemi sanitari prossimi al collasso.

Ne ha parlato l’Atlantic in un articolo firmato da Timothy McLaughlin, che scrive da Hong Kong. «Poco tempo fa, al Kerry Hotel, c’erano alcuni cittadini che facevano il bagno nella piscina dell’albergo, altri erano sdraiati sulle sdraio sotto gli ombrelloni, leggendo libri e sfogliando pigramente i loro telefoni. Questi ospiti non alloggiavano in albergo, avevano solo acquistato pass giornalieri per utilizzare i suoi servizi. I veri ospiti, quelli che la notte dormivano nella struttura, erano tutti nelle loro stanze, e non si erano registrati per svago: stavano trascorrendo due, o in alcuni casi tre, settimane in quarantena obbligatoria. Il Kerry Hotel offre molti comfort di lusso, ma la libertà di movimento non è uno di questi», si legge nell’articolo.

La strategia “Zero Covid” è stata una soluzione ottimale a breve termine in Asia, intrapresa già nelle primissime settimane di pandemia. Ma spostarsi verso un modello più sostenibile sul lungo periodo potrebbe essere più complesso. È un discorso che interessa soprattutto i cittadini, che per quanto tolleranti potrebbero non accettare periodi troppo lunghi di restrizioni rigide e controlli serrati.

«I risultati sono stati positivi, ma si stanno rivelando difficili da replicare mese dopo mese, soprattutto perché molti di questi Paesi hanno difficoltà a implementare campagne di vaccinazione di vasta portata», scrive McLaughlin sull’Atlantic.

Il tema dei vaccini è complesso. In molti Paesi, ad esempio il Giappone, la popolazione è storicamente contraria alle vaccinazioni, per ragioni che sono radicate nella cultura e nella tradizione della popolazione.

In altri casi, l’approccio rigidissimo adottato fin qui sta producendo una sorta di effetto boomerang: il basso numero di casi e decessi ha fatto in modo che molte delle persone della città ritengano superfluo il vaccino.

A Hong Kong, in particolare, l’amministratore delegato Carrie Lam ha detto di non credere che i funzionari del governo dovrebbero dare incentivi alle persone per fare il vaccino – anche se sembra assurdo. In più, l’ex colonia britannica, spiega l’Atlantic, «tratta essenzialmente allo stesso modo i cittadini vaccinati e i non vaccinati: entrambi devono comunque indossare mascherine in pubblico o durante gli allenamenti in palestra o limitare le riunioni pubbliche a quattro persone. La maggior parte deve sopportare settimane di quarantena alberghiera all’arrivo dall’estero e navigare in un diagramma di flusso delle normative sempre più confuso per ristoranti e bar».

Infatti oggi appena il 17% della popolazione di Hong Kong è completamente vaccinata, con due dosi, nonostante i vaccini siano disponibili da più di 100 giorni. E il tasso di vaccinazione è addirittura più basso per i cittadini anziani e coloro che vivono in case di cura, che sono a maggior rischio di malattie gravi o di morte rispetto ad altre fasce della popolazione.

Come se non bastasse, a febbraio la decisione del governo di Hong Kong di approvare il vaccino cinese Sinovac ha amplificato la già profonda sfiducia nei confronti delle autorità pubbliche, che con la pandemia avevano sfruttato le condizioni di particolare criticità per intensificare repressione e controllo del dissenso politico.

Altri due Paesi asiatici che hanno avuto successo all’inizio della pandemia ora stanno avendo grosse difficoltà.

Il Vietnam sta vivendo un aumento dei casi più o meno costante da fine aprile e per alcuni è la fase più grave dall’inizio della pandemia – anche perché in Vietnam solo 59 decessi sono riconducibili al Sars-Cov-2.

«Il governo di Hanoi si è procurato i vaccini e si è rivolto al crowdfunding di aziende e privati per la campagna vaccinale nazionale, sta anche portando avanti i piani per sviluppare e produrre eventualmente un vaccino domestico. Ma con solo il 2% circa della popolazione che ha ricevuto una dose di vaccino, l’aumento dei casi ha portato a implementare nuove misure restrittive», scrive l’Atlantic.

Un caso diverso è rappresentato da Taiwan: il governo ha provato a procurarsi i vaccini, ma ha dovuto fare i conti con le interferenze di Pechino, che secondo il presidente Tsai Ing-wen è intervenuta per bloccare un accordo che l’isola aveva con BioNTech.

Circa il 4% degli abitanti ha ricevuto una dose di vaccino a Taiwan e sebbene i casi abbiano ricominciato a diminuire dopo un picco di fine primavera, l’isola sarà sotto quello che viene chiamato un «allarme epidemia di livello 3» almeno fino alla fine di giugno – quindi i ristoranti potranno fare solo asporto, saranno vietate cerimonie per matrimoni o funerali, le mascherine saranno obbligatorie ovunque, e altre misure di sicurezza che abbiamo sperimentato anche in Europa.

Inoltre va considerato che la scarsa propensione al vaccino di molti Paesi asiatici – o la loro difficoltà nel somministrare dosi alla popolazione – sta contribuendo anche alla diffusione delle varianti, alimentando ulteriormente la spinta verso restrizioni più severe.

«Nelle prime fasi della pandemia – conclude l’Atlantic – gran parte dell’Asia ha guardato con orrore l’Europa e gli Stati Uniti, perché le persone si sono rifiutate di indossare mascherine, accettare il distanziamento sociale o il lockdown. Eppure ora lo scenario sembra essersi capovolto: americani ed europei sono, sempre di più, in grado di andare liberamente in giro, in totale sicurezza tra ristoranti e bar, mentre i loro omologhi in Asia orientale, senza una campagna vaccinale rilevante, devono sottostare a più severe nel tentativo di sopprimere totalmente il virus».

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