«E si ’a vita amara se fa, si addolcisce cu nu babà». Marisa Laurito dedicò una vera e propria ode al dolce napoletano per antonomasia, inventato in Polonia, perfezionato in Francia e oggi identitario dei cabaret delle domeniche al Sud Italia. E se Napoli è la personificazione del babà, il babà è la Napoli fatta dolce, la Sachertorte partenopea che si scrive con una consonante esplosiva bilabiale sonora ma ogni pronuncia che si rispetti fa baciare le labbra due volte con raddoppiamento fonosintattico.
Questo lievitato da forno estremamente soffice e imbevuto nel rum, fino allo scorso secolo ha trovato la sua massima trasgressione in quell’affondo centrale ingrassato dalla crema pasticcera che dietro al bancone di Scaturchio chiamavano, fuor di metafora, sporcamano; saltuariamente può capitare di trovare ancora il savarin con l’uvetta, l’incantesimo napoletano o babà che passeri per chi ha familiarità con il dialetto.
Cresciuto a pastiere e sfogliatelle, Alessio Padiglione, terza generazione che anima di glicemia e tradizione il dietro le quinte della storica pasticceria nella centralissima Via Toledo, ha rubato con gli occhi il mestiere del padre, che fu prima ancora del nonno. A un ritmo di circa 300 babà al giorno, nel laboratorio fa roteare l’impasto perché «il segreto per ottenere un prodotto di eccellenza, oltre alla nostra bagna segretissima, è la manualità del pasticcere», che guardando ai cugini pizzaioli freestyler si esibisce imitando una sorta di saltimbanco nel retrobottega.
Ma che cosa potranno mai avere in comune un vulcano e un babà, a parte il fatto che entrambi, per differenti motivi, sono esplosivi? È presto detto. A totalizzare l’attenzione nella vetrina che affaccia su strada, è il monumentale e identitario babà a forma di Vesuvio, 6 chili di traboccante gioia, da condividere con 40/50 persone, realizzato «quando il mondo scelse Napoli» in occasione del G7 nel 1994. Probabilmente non ne ha memoria Alessio che aveva appena un anno quando la statuaria riproduzione fu scolpita similmente a un modello di cartapesta e gesso irrorandola con liquore al bergamotto, e riprodotta altresì come spugnoso dessert da passeggio a due gobbette: «Brevettato da Scaturchio, mostra le pendici rugose del vulcano che da nere sono diventate chiare e brillanti di marmellata e, volendo, nel cuore delle feste, dal cratere si può vedere uscire un pacifico fumo bianco».
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Da annoverare nello categoria street food napoletano c’è anche il babà nel bicchiere di Casa Infante stratificato a seconda dei gusti con crema chantilly, cremoso al pistacchio o cioccolato fondente e biscotti al cacao.
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Sdoganato, invece, il babà rovesciato in vasocottura, tecnica che imprigiona sotto vetro aromi e profumi, c’è chi ha confezionato quelli fai-da-te. De Vivo a Pompei ha pensato al kit de i babàrini reali: mini lievitati con la cupola rigonfia sigillati sotto vuoto e affiancati da un mix alcolico aromatizzato agli agrumi e uno spray preparato al rum, gli indispensabili per preparare a casa l’autentico babà.
Un altro brevetto a tema è quello depositato da Emilio Il Pasticciere: «Non è un babà farcito, non è un semifreddo al cioccolato, è semplicemente il Roccobabà®». Sotto le mentite spoglie di un canonico babà napoletano si nasconde un semifreddo alla vaniglia glassato al cioccolato al latte e decorato con ciuffi di panna. Fino al 2000, però, al banco tutti lo additavano come Babà semifreddo al cioccolato, una denominazione tecnica, superata grazie al fortuito assaggio dello stilista Rocco Barocco che si innamorò follemente di questa versione. «L’idea venne perché in quel periodo notammo che era aumentato molto il consumo della gianduia e per accontentare i clienti più estrosi, senza però stravolgere la tradizione, abbiamo associato questa crema a un dolce tipico», racconta Nicola Goglia, pastry-chef dell’insegna a Casal di Principe che nel 2020 ha compiuto i suoi primi quarant’anni di attività. Una velleità artigianale declinata nel formato monoporzione, ma che gareggia nella categoria pesi massimi di pasticceria per 5 chili di «babà fino a certo punto» come ama definirlo Goglia.
Ha il sapore di inclusività il progetto gluten & lactose free di Leopoldo Infante, insegna di culto per i suoi taralli e punto di riferimento dei golosi, che ha messo a punto il primo babà a prova di intolleranze. Tra zeppole, cassatine, roccocò, pastiera e paste di mandorle senza glutine e senza lattosio, si erge sua maestà il babà (speciale) che dal punto di vista organolettico e nell’aspetto somiglia in tutto e per tutto al fratello classico: sconsiderata leggerezza, tripla lievitazione, cottura a puntino e bagna aromatica alcolica alla vecchia maniera che nessun pasticcere confesserà mai, neanche sotto tortura. L’unica differenza la fa quel rincaro (giustificato) di trenta centesimi a fronte del canonico euro e settanta, una spesa certa come gli ottanta centesimi della tazzulella e’ cafè. «Il ricordo più bello di tutti questi anni in pasticceria è senza dubbio assistere alla commozione dei miei clienti che sono tornati a gustare un dolce della loro infanzia o di chi non ha mai potuto mangiarlo e finalmente sa che sapore ha la felicità».
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