Sardegna, mare cristallino, nel piatto branzino appena pescato e lamelle di tartufo fresco. Può sembrare insolito mangiare tartufo in riva al mare ma se si tratta del Tuber aestivum Vittadini, la varietà disponibile in natura da maggio a ottobre, non è poi così strano.
In terra sarda, il tartufo nero è di casa nelle zone del Sarcidano e dell’Alta Marmilla, in particolare nel triangolo compreso tra Nurallao, Laconi e Villanova Tulo. Un piccolo tesoro sconosciuto agli stessi sardi, dal momento che quasi l’intera produzione locale viene esportata senza lasciare traccia nei piatti della tradizione.
Tanto abbondante in natura quanto discreto, il tartufo estivo ha un profumo delicato, con note fungine che accompagnano i sapori senza sovrastarli. Il suo aroma poco invadente lo rende adatto ad arricchire piatti a base di pesce, ma anche come ripieno per la pasta fresca e, perché no, per un dolce.
Lo chef Massimo Guzzone del ristorante La Scogliera sull’isola della Maddalena, lo propone in un menu a tutto tondo: tagliato a julienne su una tartare di tonno, guacamole, salsa miso; a scaglie sottilissime su foie gras e gamberi rossi di Porto Torres; spolverato sulla tipica pasta ripiena sarda, i colurgiones o, ancora, accostato a una scaloppa di branzino, beurre blanc e asparagi crudi per sconfinare nel dolce ripieno della seadas, il tortello sardo a base di formaggio di capra.
«Spesso si commette l’errore di cercare nel tartufo estivo gli stessi profumi del cugino nobile, il tartufo bianco, perdendo l’unicità che caratterizza le singole varietà» spiega Luigi Dattilo di Appennino Food Group, l’azienda di Savigno, in provincia di Bologna, che esporta tartufi in tutto il mondo e rifornisce con i suoi prodotti numerosi ristoranti tra cui La Scogliera alla Maddalena, il tristellato Da Vittorio in provincia di Bergamo e Otto e mezzo dello chef Umberto Bombana a Hong Kong. «Altro errore comune è pensare al tartufo come a un prodotto stagionale legato ai mesi autunnali quando in realtà si può degustare fresco tutto l’anno».
L’Italia è il paese in cui si sviluppano la maggior parte dei tartufi commestibili, sia in termini di varietà che di quantità. Delle 114 specie censite nel mondo, cinque sono utilizzate in cucina: il più comune è il tartufo nero estivo, noto anche con il nome di scorzone per la tenace membrana esterna che sviluppa per difendersi dal caldo; da settembre a dicembre si raccoglie il Tuber uncinatum Chatin, una varietà caratterizzata dalla forma a uncino delle spore, e il pregiato Tuber magnatum Pico, il tartufo per antonomasia, il cui aroma arrogante si esprime al meglio in purezza. Da novembre a marzo è la volta del tartufo nero dolce o Tuber melanosporum, il più nobile tra i tartufi neri; in piena maturazione raggiunge note aromatiche che tendono alla cioccolata fondente o al brandy. A differenza del bianco, non teme la cottura anzi, il suo aroma caratteristico si apprezza maggiormente quando viene leggermente scaldato. Infine da gennaio ad aprile è di nuovo stagione di bianco, con la varietà Tuber albidum Pico, considerato il fratello minore del tartufo bianco, da utilizzare sotto forma di crema o per aromatizzare l’impasto di tortellini o ravioli.
I tartufi non sono altro che funghi ipogei che crescono sottoterra. Perché si sviluppino è necessario un rapporto simbiotico con le piante madri – querce, noccioli, tigli, pioppi, carpini – o con alcuni arbusti, le cosiddette piante comari: ginestra, rosa canina, lavanda e timo.
L’albero fornisce al tartufo gli zuccheri e diverse sostanze prodotte dalla fotosintesi mentre il tartufo cede alla pianta i minerali che non potrebbe assorbire attraverso le radici in uno scambio alla pari che avviene solo in determinate condizioni. Per questo si dice che i tartufi non si coltivano, ma ci si deve limitare a creare le condizioni affinché si sviluppino.
Un capriccio della natura che, una volta estratto dalla terra, va trattato con i guanti per evitare che perda le sue caratteristiche organolettiche nel giro di pochi giorni. Appennino Food group ha ideato una sorta di microhabitat all’interno del quale il tartufo può continuare la sua maturazione e conservarsi al meglio. Quando il livello di umidità dell’aria all’interno della teca scende al di sotto della soglia ottimale, un sistema a ultrasuoni scinde la molecola dell’acqua producendo l’effetto di una nebbia leggera che accarezza il tartufo.
Grazie a questo microhabitat può essere trasportato dovunque e ammirato in tutta la sua bellezza. «Il progetto, frutto di due anni di studio, consentirà ai ristoratori che ne vorranno far parte di avere una vetrina dove conservare il prodotto e contemporaneamente mostrarlo ai clienti» spiega Dattilo. L’azienda, che lavora 32 tonnellate di tartufo ogni anno, produrrà venti teche che verranno date in comodato d’uso a una ristretta selezione di ristoranti: cinque prenderanno la via di Hong Kong, altrettante andranno a Riad, in Arabia Saudita, e dieci saranno destinate a Italia ed Europa.