Dici Nebbiolo e subito pensi alle dolci colline di Langa. E invece l’Alto Piemonte, terra riservata per natura, nasconde gradite sorprese. Da settecento anni, nelle valli Ossolane si produce un particolare biotipo di Nebbiolo noto come Prünent. Non immaginatevi i classici filari però perché essendo ai piedi delle montagne i contadini hanno dovuto ingegnarsi per sfruttare al massimo i raggi del sole, motivo per cui i tralci sono coltivati a pergola (tòpia nel dialetto locale).
Il Nebbiolo ai piedi del Monte Rosa
Dopo anni in cui la denominazione è stata mantenuta in vita da un unico produttore di zona, le cantine Garrone, recentemente si sono aggiunte altre piccole realtà e oggi le aziende che coltivano la doc sono sei. Queste vallate strette tra la Lombardia e la Svizzera, svuotate negli anni del boom dal richiamo delle fabbriche, sono tornate a popolarsi di giovani di belle speranze. Il rinascimento vitivinicolo ossolano si deve a un manipolo di vignaioli eroici con i piedi ben piantati su questi pendii che spesso raggiungono pendenze superiori al 30%. «Coltivare ad altitudini che arrivano fino a 600 metri, in appezzamenti minuscoli dove non passano i trattori e devi fare tutto manualmente, non è facile» spiegano Marco e Matteo Garrone, rispettivamente responsabile marketing e enologo dell’azienda di famiglia che quest’anno taglia il traguardo dei cento anni. Eppure nonostante le rese per ettaro siano basse e le ore di lavoro manuale tantissime, trovare un terreno in vendita da queste parti è cosa più unica che rara. Qui tutti hanno un pezzo di vigna che coltivano per hobby e questo ha contribuito anche a preservare il paesaggio ed evitare lo spopolamento.
Cervelli (e braccia) di ritorno
Edoardo Patrone, dopo la laurea in enologia ad Alba, tre anni passati in Langa e uno in Australia, ha dovuto mettere insieme ventotto piccoli appezzamenti di terra per avviare la sua produzione e da tre anni produce il suo vino. Quello di punta è il Prünent Stella fatto con 100% di uve Nebbiolo, affinato in botti di rovere dopo una breve macerazione.
Mara Toscani, invece, ha ereditato i terreni dai nonni, piccoli terrazzamenti abbandonati cui ha ridato vita nove anni fa reimpiantando le barbatelle di Prünent. Cà da l’Era, si estende su 2 ettari di terreno, sparsi tra Pieve Vergonte, Trontano, Crossiggia e Campoccio che fruttano circa 6 mila bottiglie all’anno.
Degustare: l’abbinamento perfetto del Prünent? Carni rosse, selvaggina e Bettelmatt, il formaggio che si produce negli alpeggi al confine con la vicina Svizzera.
Vedere: in Val d’Ossola anche l’architettura è di resistenza. A Oira di Crevoladossola c’è il villaggio medievale di Canova, un antico borgo in pietra recuperato. Sempre in Val d’Ossola c’è anche Viganella, famoso perché dal 2016 uno specchio installato sulla collina di fronte illumina il paese simulando un sole artificiale durante l’inverno.
Dormire: in un’antica casaforte in pietra ossolana risalente al 1598, riportata al suo antico splendore dalla famiglia Garrone. Cà d’Matè ospita anche la cantina di invecchiamento dell’azienda e le degustazioni.
Seduti su un supervulcano
Scendendo dalla Val d’Ossola verso la Valsesia le colline diventano via via più dolci e le temperature mitigate dalla vicinanza del lago Maggiore. Per cogliere la particolarità di questo territorio bisogna fare un salto indietro di 290 milioni di anni quando tra queste colline c’era un supervulcano con un’attività tanto intensa da oscurare l’atmosfera e alterare il clima globale. Le continue eruzioni portarono alla formazione di una caldera del diametro di diversi chilometri (di qui il termine supervulcano) e, dopo una fase di inattività, al collassamento del vulcano su se stesso. Quando circa 60 milioni di anni fa Africa e Europa entrarono in collisione formando le Alpi, in corrispondenza della Valsesia il rivoltamento della crosta terrestre fece emergere le parti più profonde del vulcano portando in superficie l’apparato magmatico sepolto a una profondità di circa 25 chilometri.
Camminare tra questi vigneti significa entrare in un parco geologico a cielo aperto, con rocce di origine vulcanica – porfidi specialmente nelle zone di Boca e Bramaterra e in ordine sparso graniti, calcari, quarziti, scisti, arenarie, sabbie e vulcaniti – che riemergono in superficie e danno a questi vini caratteristiche organolettiche inconfondibili.
Il territorio nel 1987 è diventato parte del parco naturale del monte Fenera e dal 2015 è stato riconosciuto patrimonio Unesco.
Gli artigiani dell’ambiente
I terreni, ricchi di minerali ma con scarsa materia organica, storicamente danno rese contenute. Senza contare i danni della fauna selvatica – caprioli, tassi e cinghiali – che ogni anno “bevono” l’equivalente di centinaia, a volte migliaia, di bottiglie direttamente alla fonte. Eppure tra questi vigneti circondati dai boschi dove fino a poco tempo fa nidificava la cicogna nera c’è chi resiste cercando un compromesso con la natura.
Boca ha una vocazione slow da scoprire percorrendo le ciclabili che salgono e scendono tra i vigneti oggi perfettamente curati dopo anni di abbandono. «Nella seconda metà degli anni Settanta qui non si produceva più la doc» racconta Anna Sertorio che manda avanti Podere ai Valloni, dimora settecentesca e vigneto certificato biologico dal 2011, acquistato dai suoi genitori negli anni Ottanta. «Cerchiamo di essere dei buoni artigiani dell’ambiente, il che significa anzitutto rispettare la biosfera e preservare ciò che questi luoghi ci hanno lasciato in eredità. Per noi meno quantità significa più qualità. Non stressare la vite spingendola verso rese più alte consente alla pianta di resistere da sola alle malattie senza uso di pesticidi» continua Sertorio che mostra con orgoglio il vigneto storico, ridisegnato dalla madre architetto negli anni Ottanta, con piante di Vespolina, un’uva tintoria molto aromatica presente solo in Valsesia. Vecchie quarant’anni, sono sopravvissute all’attacco della peronospera.
Il vino che si produce qui non ha fretta. Fiore all’occhiello della tenuta è il Boca Vigna Cristiana – 70% Nebbiolo, 20% Vespolina e 10% Bonarda novarese – che affina almeno 3 anni in botti di rovere, più 12 mesi in bottiglia prima arrivare sul mercato. Un invecchiamento quasi doppio rispetto a quanto prescrive il disciplinare ma necessario per ammorbidire la presenza dei tannini.
Pochi poggi più in là ci sono le Tenute Guardasole, 2 ettari esposti a sud, coltivati a Nebbiolo e Vespolina. Marco Bui, che qui produce il Pio Decimo da uve di solo Nebbiolo, racconta una storia analoga di tradizione e rispetto per la natura: «Anziché tagliare l’erba che cresce nei filari spesso la pestiamo. Facciamo sentire la mano dell’uomo il meno possibile. Come una volta utilizziamo solo rame e zolfo, integrandoli con estratti naturali di alghe».
Se guardi l’orizzonte vedi solo boschi di castagno, piccoli borghi e vigneti punteggiati dalla macchia mediterranea. Perché qui i venti freddi delle Alpi sono frenati dal monte Fenera e i laghi abbastanza vicini da mitigare le nebbie e le gelate durante l’inverno. Un microclima che fa prosperare siepi di pitosforo e rosmarino, come in riviera.
A Cavallirio, uno dei comuni dove si produce la doc (insieme con Boca, Prato Sesia, Maggiora e Grignasco) Silvia Barbaglia, enologa con laurea in Economia e commercio, continua la tradizione di famiglia insieme al padre nei sei ettari e mezzo di vigneti coltivati a Nebbiolo, Vespolina, Croatina, Uva rara ed Erbaluce. E presto la Cascina del buonumore, la vecchia casa colonica dove fino agli anni Ottanta non c’era acqua corrente ed elettricità, diventerà luogo di degustazione e vendita delle sue etichette.
Degustare: l’abbinamento perfetto del Boca è con le tome di zona. Ce ne sono molte, dalla Valsesia alla conosciutissima Maccagno, fino alla Tuma Ajgra a lunga stagionatura, da assaporare nei casotti che punteggiano i poggi, antiche costruzioni in pietra locale che un tempo davano ristoro e riparo ai contadini. Perfettamente conservate, sembrano uscite da una capsula del tempo.
Vedere: Alessandro Antonelli, l’architetto della mole antonelliana a Torino e della basilica di San Gaudenzio a Novara, era originario di Ghemme, nel Novarese. Tra le colline è cresciuto e ha lasciato la sua impronta nel Santuario del Santissimo Crocefisso a Boca, ma in questi luoghi Antonelli si interessò anche alla viticoltura perfezionando la maggiorina, un sistema di impianto molto antico formato da tre o quattro viti che si sviluppano al centro di un quadrato di circa quattro metri per lato con i tralci allungati verso i punti cardinali. Studiando l’inclinazione dei terreni e del peso dei tralci carichi d’uva, Antonelli calcolò il giusto grado d’inclinazione dei pali di sostegno.
Dormire: al B&B Il Cardellino, in mezzo ai vigneti, proprio accanto al Santuario di Boca.
Sulle strade dei calici
Scendendo ancora più a sud si incontrano le zone di Bramaterra, Lessona e Gattinara. Dalla panchina gigante installata in località Le Castelle di Gattinara, una delle tante big bench dell’artista Chris Bangle sparse un po’ in tutto il Piemonte, lo sguardo sui vigneti spazia a 180 gradi. Ma dai punti panoramici è possibile seguire un percorso parallelo denominato Le vie dei calici che presto collegherà altri poggi, non solo nelle colline di Gattinara ma anche in quelle vicine del Bramaterra, tra Lozzolo e Roasio per poi allargarsi ad altre zone.
Eppure fino agli anni Settanta da queste parti non era raro che ristoranti e osterie servissero il Chianti perché il vino del posto nessuno lo produceva più. Tra i pochi ad andare controcorrente all’epoca fu Giancarlo Travaglini che nel 1968, senza conoscere una parola di inglese, portò il suo Gattinara a New York (oggi il brand è presente in 46 paesi nel mondo). Si inventò anche una bottiglia dalla forma speciale che consente di servire il vino direttamente nel bicchiere senza farlo decantare.
Lo spopolamento delle valli è testimoniato dalle fotografie d’epoca conservate all’archivio della Fondazione Sella che mostrano le colline del Bramaterra (dove la famiglia Sella possiede una tenuta dal 1890 oltre agli storici possedimenti a Lessona, nel Biellese) fitte di vigneti fino agli anni Cinquanta; poi il progressivo abbandono e le malattie spazzarono via quasi tutte le vigne e il bosco riprese terreno. Sorte analoga è toccata anche a Ghemme, Sizzano e Fara, sull’altra sponda del fiume Sesia, altra zona votata alla viticoltura le cui doc per diversi anni hanno rischiato l’estinzione.
Qui si beve il vino dell’Unità d’Italia
Eppure tanta storia è passata da queste vallate discrete e bellissime. Se la bandiera dell’Italia unita fosse un vino sarebbe un calice di Lessona. L’allora ministro delle finanze Quintino Sella lo scelse al posto dello champagne per brindare all’unità d’Italia dopo la presa di Roma nel 1870. L’omaggio in bottiglia di Poderi Sella all’avo illustre è in produzione limitatissima – solo 1500 bottiglie – realizzata con un 85% di Nebbiolo e 15% di Vespolina solo nelle migliori annate.
Week end con i produttori
Ma accanto ai big, Poderi Sella e Travaglini, ci sono altri piccoli produttori che portano alta la bandiera del Nebbiolo, su tutti Lorella Zoppis Antoniolo, figlia d’arte e vicepresidente del consorzio di tutela che quest’anno per portare i turisti in Alto Piemonte ha organizzato durante le fine settimana di giugno degustazioni in cantina e menu a tema in ristoranti e enoteche della zona (programma qui).
A Gattinara oltre alle cantine Antoniolo c’è l’azienda di Luca Caligaris, 2 ettari e 10mila bottiglie all’anno tra cui un Riserva Coste della Sesia; in zona Bramaterra l’azienda agricola La Palazzina a Roasio (Vc) che produce Bramaterra Doc e Coste della Sesia Rosso Doc; Odilio Antoniotti e il figlio Mattia, settima generazione, che continua la tradizione di famiglia dal 1860 coltivando i vigneti storici in località Martinazzi. E poi giovani scommesse, come quella di Lorenzo Ceruti, che insieme ad alcuni amici ha acquistato 2 ettari di terra sulle colline attorno a Casa del Bosco e produce dal 2014 Bramaterra Doc e Coste della Sesia Doc.
Degustare: i ristoranti di zona hanno in carta la paniscia, il tipico risotto con borlotti e salame della duja, che qui servono sfumato con i rossi locali mentre nelle macellerie si trova il salame al Gattinara.
Vedere: il museo del Bramaterra a Lozzolo e il ricetto di Candelo, in provincia di Biella, per un salto indietro nel tempo. Sempre nel biellese è possibile andare per fiumi e torrenti a caccia dell’oro. Per chi volesse cimentarsi in una esperienza alla Mark Twain la meta è il torrente Elvo, nella Valle dell’Oro, il corso d’acqua aurifero più apprezzato dai cercatori italiani.
Dormire: nel centro storico di Varallo c’è il B&B Al vicolo del gallo, mentre per vivere l’atmosfera di un rifugio romantico ad alta quota, a sei chilometri dal santuario del Sacro monte di Varallo, c’è la Baita delle coccinelle.