Il 2 luglio del 1961 cadeva di domenica, e fu proprio quella domenica mattina che nella sua casa in Idaho Ernest Hemingway si sparò in testa con un fucile, lasciando orfano un pezzo importante di umanità. Voi chiederete: perché parliamo del suicidio di Hemingway in questa rubrica sul cibo? Io rispondo che innanzitutto pensavo di avervi abituato alle digressioni, anche a quelle parecchio fantasiose. Ma, ancora più importante, un nesso c’è. Sì perché uno dei registri narrativi e letterari più affascinanti che si possano leggere intorno al racconto e alla descrizione del cibo è proprio quello di Hemingway. Facile, direte ancora voi: era un fuoriclasse assoluto. Vero, verissimo. Ma non basta. Fior di fuoriclasse non sono mai riusciti a scrivere di cibo in modo altrettanto intenso, o perlomeno a un livello avvicinabile al suo, e il motivo, a mio sindacabilissimo giudizio, è che stiamo parlando di uno scrittore che con il cibo aveva un rapporto godereccio e viscerale, che nel cibo trovava ristoro e probabilmente anche consolazione esistenziale.
Del suicidio di Hemingway scrive molto bene Claudio Castellacci su Doppiozero: Ketchum e l’enigma della morte di Hemingway. E leggendo il pezzo, con addosso una buona dose di malinconia, mi è venuto in mente che l’altra condizione imprescindibile per scrivere bene di cibo è possedere uno sguardo ampio, un bagaglio culturale sfaccettato, interessi molteplici, e magari pure solidi trascorsi in altri “settori”. La pluricitata triade italica Soldati-Brera-Veronelli lo dimostra, ma basta dare uno sguardo anche alle migliori penne odierne per farsi un’idea abbastanza precisa. Certo, forse queste mie osservazioni potranno suonare banali, ma proprio così scontate in fondo non mi sembrano: le scuole, i master, i corsi online e offline che si occupano di scrittura gastronomica dovrebbero prevedere qualche lezione su Hemingway, così come sul Walden di Henry Thoreau o le Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli, anche se temo che sia più alto il monte-ore dedicato al marketing, alle degustazioni, alla comunicazione social. Facciamo più calcoli, abbiamo cuori più freddi. Sarà lo spirito dei tempi.
Ma siccome questa rubrica vuole andare controcorrente, a volte riuscendoci altre meno, qui di seguito condivido un po’ di articoli genio e sregolatezza, e che a modo loro riscaldano il cuore.
Su 1843 Ann Wroe ha scritto I’m dreading having friends round for dinner, un articolo in cui spiega come in questi mesi di ripetuti lockdown non abbia usato il tempo a sua disposizione per affinare le sue tecniche culinarie, e quindi ricominciare a ospitare gente a casa si porti dietro qualche timore.
Sul San Francisco Chronicle in Readers are hungry for negative restaurant reviews – even if businesses aren’t Soleil Ho, facendo seguito a un suo articolo sul tema della settimana precedente, scrive di come la critica gastronomica possa essere stretta tra la voglia dei lettori di vedere più recensioni negative (in certi casi un po’ sadica?), e quella comprensibile dei ristoratori di leggere solo cose positive.
A proposito di felici penne dallo sguardo parecchio ampio, e di forte connotazione politica, la pluricitata (in questa rubrica) Alicia Kennedy affronta il tema delle “risse” social sul cibo, sintomo a suo dire di un mondo parecchio reazionario: On Low-Hanging Fruit.
Seth Stevenson su Slate ha pubblicato un articolo intitolato It’s Finally Clear Why Amazon Bought Whole Foods, adattamento di una puntata del podcast Thrilling Tales of Modern Capitalism, e racconta il vero motivo per cui Amazon ha comprato la catena di supermercati Whole Foods.
Tuttavia, siccome possiamo stare qui a parlare all’infinito di gastronomia, ma se non consideriamo che il mondo così come lo conosciamo è già tramontato in fondo ci stiamo prendendo soltanto in giro, la chiusura è per Come si vive su un pianeta ferito di Andrea Cassini, uscito per L’Indiscreto. Perché la domanda finale è: come si mangia su un pianeta ferito?