Il “Green Deal”, il pacchetto per la transizione verde della Commissione europea, parte in salita. E determina la più grande spaccatura dell’Unione degli ultimi anni, racconta Repubblica. Con due schieramenti che criticano il provvedimento da posizioni diverse, chiedendo correzioni alle 12 proposte contenute nel testo. Nessuno vuole bocciare il progetto, ma modificarlo sì.
Durante la riunione collegiale della Commissione, almeno la metà dei 27 commissari ha espresso perplessità su quello che è stato nominato “Fit for 55”, riferendosi alla percentuale di riduzione delle emissioni dannose posta come obiettivo comunitario. L’austriaco Johannes Hahn, commissario con delega al Bilancio, ha addirittura chiesto che venisse messo a verbale il voto contrario. Ma la sua posizione non è isolata.
Da una parte Francia, Italia, Spagna, Irlanda e Portogallo. Dall’altra quasi tutti i Paesi dell’Est europeo, in particolare quelli sovranisti di Visegrad, capitanati dal vicepresidente della Commissione, il lettone Valdis Dombrovskis. Le osservazioni di questo secondo gruppo, in realtà, erano considerate scontate. Secondo la loro posizione, si tratta di target troppo ambiziosi. La decarbonizzazione, per sistemi che hanno ancora una pesante presenza di centrali a combustione fossile, come la Polonia, viene considerata troppo rapida.
Ma quel che ha sorpreso di più Ursula von der Leyen e l’ideatore delle misure, l’olandese Frans Timmermans, è stata la posizione degli altri Paesi. Il francese Thierry Breton è stato durissimo e ha addirittura ventilato la possibilità di cancellare un’intera parte del pacchetto: quello relativo all’energia. Seguito da Paolo Gentiloni che, seppure con toni molto meno duri, ha invitato a riflettere su alcune misure.
I primi appunti si sono concentrati sul prezzo dei carburanti e sugli Ets, ossia i certificati che danno diritto a inquinare. La Francia ha più di un dubbio. I “gilet gialli” sono esplosi Oltralpe proprio per l’aumento delle tasse sulla benzina. E il presidente Macron deve affrontare le elezioni tra meno di un anno. Così come l’Italia è in allerta per gli effetti su trasporti e riscaldamento domestico. E, in qualità di importatrice di materie prime, sui “dazi ambientali”.
La Svezia ha centrato l’attenzione su una questione specifica legata alla gestione delle foreste. Poi sono emersi altri due elementi. Il Fondo sociale per il Clima – che in un primo momento aveva delle condizionalità, poi rimosse su pressing del commissario agli Affari economici – ha provocato la preoccupazione che possa favorire i Paesi più in ritardo sulle decarbonizzazione: in sostanza che i soldi vadano in larga parte a Polonia e Ungheria. L’altro aspetto riguarda i contributi che ogni Stato dovrà versare per conseguire gli obiettivi. Quota stabilita in base al Pil pro capite del 2013. Da allora, però, tanti sono i Paesi che hanno visto ridurre la loro crescita.
La situazione, insomma, a Bruxelles è agitata. A questo punto i tempi di approvazione si allungano. Fino alle elezioni francesi della primavera 2022, nemmeno se ne parla.
Anche perché la “squadra” franco-italiana teme che il “Green Deal” diventi nuova benzina per il fronte sovranista.