Il futuro della magistraturaPignatone contro la separazione delle carriere per le toghe

Secondo l’ex procuratore di Roma, il rischio è di avere pm “superpoliziotti” e giudici sempre più deboli. Oggi dovrebbe tenersi la cabina di regia tra il premier Mario Draghi e i capi delegazione di maggioranza per fare il punto nel governo sulla riforma della giustizia, che potrebbe finire sul tavolo del consiglio dei ministri in settimana

Foto Vincenzo Livieri - LaPresse

«Davvero “separare le carriere di giudici e pubblici ministeri” è la condizione essenziale per la soluzione di tutti mali della giustizia italiana?», se lo chiede in un intervento sulla Stampa Giuseppe Pignatone, ex procuratore di Roma e attuale presidente del Tribunale del Vaticano. Oggi dovrebbe tenersi la cabina di regia tra il premier Mario Draghi e i capi delegazione di maggioranza per fare il punto nel governo sulla riforma della giustizia, che potrebbe finire sul tavolo del consiglio dei ministri in settimana. Ma Pignatone definisce l’ipotesi di separazione delle carriere come uno «sconvolgimento degli equilibri fissati in Costituzione».

Viene prospettata l’impossibilità per chi ha svolto le funzioni di accusa di trasformarsi nel garante imparziale dell’imputato. «È un’affermazione del tutto apodittica, smentita dalla storia di questi ultimi trent’anni», scrive Pignatone. «Si pone, semmai, un problema di professionalità, e in tal senso sono previsti specifici corsi di formazione. Peraltro, la separazione delle funzioni si è già realizzata in concreto. Infatti, il fenomeno del passaggio da una funzione all’altra, scoraggiato anche dal fatto che può avere luogo solo dopo cinque anni e comporta il trasferimento in un’altra regione, ha dimensioni assolutamente esigue». Si parla di «appena 80 passaggi da requirente a giudicante e solo 41 in direzione opposta nell’arco di un triennio, con percentuali minime rispetto al numero dei magistrati in servizio (rispettivamente 1,17% e 0,20%). Questi numeri si ridurranno ancora di più se, come proposto dalla Commissione Luciani per le riforme in materia di ordinamento giudiziario, in futuro saranno consentiti solo due passaggi di funzione nell’intero arco della vita professionale del magistrato».

Non convince Pignatone neanche «la tesi che fa derivare la necessità della separazione delle carriere dai principi del giusto processo sancito dall’articolo 111 della Costituzione, sostenendo che la parità delle parti davanti a un giudice terzo non sarebbe possibile se accusatore e giudice appartengono entrambi allo stesso ordine giudiziario. Infatti la parità in questione è quella garantita dalla legge nel processo e non quella ordinamentale; né si può nascondere la realtà della diversa natura di parte pubblica del Pm, riconosciuta ancora di recente dalla Commissione Lattanzi per la riforma del codice di procedura proprio per giustificare, paradossalmente, il trattamento deteriore del Pm che dovrebbe perdere il diritto di proporre appello avverso le sentenze di primo grado».

L’argomento sostanziale a favore della separazione rimane allora, ragiona Pignatone, «l’asserita incapacità dei giudici di esercitare la funzione di controllo per la loro predisposizione a prestare ascolto alle tesi dell’accusa perché prospettate da appartenenti alla stessa carriere (tanto che si giunge a parlare di “appiattimento” dei giudici sul Pm). Anche qui dai numeri emerge una precisa smentita: secondo i dati elaborati dalla Procura Generale della Cassazione nel 2020, già in primo grado si ha una percentuale di assoluzioni nel merito del 26%, che raggiunge il 40% nei giudizi monocratici. Più difficile è stabilire il numero delle richieste di misure cautelari rigettate dal Gip, di cui non si ha quasi mai notizia all’esterno del procedimento. Uno dei pochi dati disponibili registrava comunque per il tribunale di Milano, nel 2013, il 25% di provvedimenti di rigetto».

Il magistrato ricorda anche «i molti processi di grande importanza e/o rilievo mediatico che si sono conclusi con sentenze di assoluzione, magari dopo un alternarsi di decisioni tra loro contrastanti. In sostanza, i giudici esercitano già la loro funzione di controllo, al cui rafforzamento tendono inoltre alcune delle proposte di riforma attualmente all’esame della ministra della Giustizia».

Quanto alla presunta «influenza dominante dei Pm sul Consiglio Superiore della Magistratura o, meglio, sulle correnti all’interno di essa», Pignatone dice: «Anche in questo caso i dati concreti sono di segno contrario. I rappresentanti dei giudici sono il triplo di quelli dei Pm (12 e 4) e la stessa proporzione è prevista nella proposta di riforma della legge elettorale elaborata dalla Commissione Luciani. Se poi si esaminano le ultime consiliature si può facilmente verificare che anche le funzioni, peraltro di importanza relativa, di capogruppo non sono state svolte in prevalenza, per le singole correnti, da consiglieri provenienti dagli uffici di Procura».

Pignatone conclude quindi che «l’argomento principale a sostegno della separazione rimane dunque un semplice sospetto che non trova riscontro nei dati oggettivi e che si alimenta invece delle polemiche che alimentano quotidianamente il dibattito sulla giustizia e che sono inevitabilmente espressione di punti di vista soggettivi».

Non viene invece preso adeguatamente in considerazione, aggiunge, «il serio rischio che la separazione delle carriere porti a rendere normale quella che oggi rimane un’eccezione e cioè un Pm superpoliziotto, inevitabilmente soggetto, molto più di quanto avvenga attualmente, alle pressioni dell’opinione pubblica, alle sue tendenze colpevoliste e alle sue richieste di un risultato immediato, specie dopo i fatti più gravi ed eclatanti. Questo risultato sarebbe inevitabile. Infatti, il Pm sganciato dalla giurisdizione e che avrebbe come unico riferimento un Csm distinto da quello dei giudici vedrebbe sempre più la propria ragion d’essere istituzionale nella funzione di accusa centrata sulla fase delle indagini preliminari, con molto minore interesse – anche in termini di progressione di carriera – all’esito giudiziario della sua azione. Parallelamente, il giudice sarebbe più solo e, quindi, più debole».

Ma il problema più grave posto dalla separazione delle carriere «è la prospettiva della dipendenza del Pm dall’esecutivo. So benissimo che (quasi) nessuno dei fautori di quella tesi lo chiede e, anzi, in tutte le proposte finora formulate essa non è prevista. Tuttavia la forza delle cose non potrebbe che spingere in questa direzione, come del resto avviene in molti Paesi europei. Non sarebbe infatti accettabile, in un sistema democratico, l’esistenza di un organo che, anche grazie al controllo della polizia giudiziaria, sia così potente e contemporaneamente del tutto irresponsabile nel momento in cui venisse meno l’attuale inserimento – peraltro in termini minoritari, come si è visto – nell’ambito più vasto della giurisdizione. Del resto, l’impossibilità di un esito diverso è confermata proprio dalla recentissima proposta della Commissione Lattanzi che siano le Camere a determinare i criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti “in piena coerenza con un’architettura costituzionale nella quale le valutazioni di politica criminale non possono che essere affidate al Parlamento”. Se questo vale per i criteri di priorità, è facile pensare che nel resto della sua attività, certo molto più incisiva, il Pm non possa restare una monade isolata dal punto di vista ordinamentale e istituzionale».

«Una riforma dunque da evitare, mentre quelle proposte dalle Commisioni Lattanzi e Luciani delineano un quadro largamente condivisibile», conclude Pignatone.

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