Dal giorno in cui il reddito di cittadinanza è stato varato dal governo gialloverde, non c’è sondaggista, analista, cronista o cartomante che non lo abbia bollato come il provvedimento più impopolare. Quale che fosse il carattere dell’analisi o la metodologia di rilevazione – a campione, a naso, a casaccio – la misura finiva sempre ai primi posti nella classifica delle più detestate dagli italiani, con la stessa perentoria fermezza con cui, in campagna elettorale, era stata definita invece l’arma segreta, l’asso nella manica, la vera chiave del successo elettorale del Movimento 5 stelle, oltre che il simbolo di tutto quello che la sinistra non aveva capito, e i grillini invece sì.
A segnare il destino del reddito di cittadinanza sembrava essere dunque non tanto l’esito di chissà quale battaglia sui principi della sinistra e della giustizia sociale, quanto il principio di inerzia. Lo testimoniavano i toni e gli argomenti sempre più deboli e difensivi utilizzati dagli stessi promotori del provvedimento, che in questi anni sono apparsi progressivamente sopraffatti dai problemi e dalle obiezioni – fondate e infondate, puntuali e pretestuose – suscitate ogni giorno dalla sua pratica applicazione.
Sembrava insomma ormai vicinissimo il momento in cui una sinistra sempre meglio disposta verso le ragioni dei grillini e un Movimento 5 stelle sempre più accondiscendente verso le ragioni della realtà, e delle sue dure e costose lezioni (costose per noi, s’intende), si sarebbero incontrati a metà strada, salvando quel che di buono poteva essere salvato, cioè l’idea che nessuno debba essere lasciato in miseria, e cancellando le molte assurdità, o almeno le più dannose.
L’occasione di una discussione razionale su costi e benefici, e proporzionalità tra i benefici e i costi, era talmente vicina che in effetti l’avevamo già sfiorata al momento di rifinanziare la misura. In pochi ormai negavano il fallimento di tutta la parte relativa alle politiche del lavoro, o contestavano l’insoddisfacente rapporto tra i costi e i risultati, e gli stessi grillini da tempo avevano abbandonato gli argomenti più radicali e demagogici. Considerando poi quanto nel frattempo sia precipitata la forza contrattuale dei cinquestelle, i molti critici del provvedimento potevano insomma guardare con fiducia al futuro.
Ecco perché l’idea di un referendum sul reddito di cittadinanza, avanzata in questi giorni da Matteo Renzi, appare da ogni punto di vista, più che sbagliata, controproducente.
In breve, si prende una misura su cui ormai, in Parlamento e nel Paese, i fautori di una sua radicale revisione erano attorno all’80 per cento e invece di chiudere la partita la si riapre, facendo ripartire da zero la discussione e soprattutto rimescolando le squadre.
Se poi gli argomenti del fronte abrogazionista fossero quel campionario di pregiudizi, cattiverie gratuite e battutine sprezzanti sui giovani che vorrebbero solo stare sul divano e sui poveri imprenditori che non troverebbero nessuno disposto a lavorare dodici ore per salari sotto la soglia di povertà – quella che per comodità definirei la linea Crudelia De Mon – c’è pure il caso che la campagna riesca nel miracolo di restituire al reddito di cittadinanza la perduta popolarità. E forse, per assurdo, persino ai cinquestelle (di sicuro, molto più di qualunque provvisorio accordicchio tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte).
In altre parole, al fondo di una simile china sta un pericolo che non riguarda solo questa battaglia. Il rischio cioè che una sorta di massimalismo liberale si riveli capace di restituire ai populisti quella centralità che la prova del governo e il conseguente impatto con la realtà avevano praticamente azzerato.
La grande occasione rappresentata dal governo Draghi consiste anzitutto nella possibilità di ricollocare la sinistra su posizioni in linea con la sua tradizione democratica e riformista (quella che da Turati passa nonostante tutto, almeno in parte, anche da Togliatti, ma non da Toninelli). Approfittarne per ricacciarla nelle braccia di populisti e demagoghi sarebbe un errore che l’Italia pagherebbe molto caro e molto a lungo.