«La fermezza della leadership segna una svolta nell’immagine del partito: potrà perdere in una votazione, ma il valore anche dalle sconfitte emerge del combattente». Con questi toni aulici, degni di figurare in rilevo sui marmi di qualche palazzo di Piacentini, il politologo Piero Ignazi sul Domani ha suonato il piffero della eroica sconfitta a petto nudo, nemmeno Enrico Letta (è di lui che si parla) fosse un moderno Diomede omerico, rinverdendo il mito della superiorità morale di una onesta sconfitta rispetto a una pasticciata vittoria, e c’è molto qui di un certo giansenismo politico, quello per cui è meglio perdere che perdersi e, detta arborianamente, meno siamo e meglio stiamo.
Si è parlato, a proposito della strategia lettiana, di «vocazione minoritaria»(Alessandro De Angelis, Huffington Post) ma diremmo che quella era più di un Nicola Zingaretti in formato Pci in sedicesimo che dell’attuale leader, il quale è invece convinto che, alla fine, vinceranno i “buoni”, pur passando attraverso belle sconfitte. E infatti Letta mette bene in conto di perdere sulla legge Zan, con una (eventuale) disfatta testimonianza di una superiorità morale che infine verrà riconosciuta dal popolo. Questo ottimismo un po’ settecentesco del leader dem fondato sull’”anima” ha bisogno di testimoniare una incorruttibilità che cozza non solo con l’organismo della destra ma anche e soprattutto con il politicismo ex comunista e cattolico di centro del quale, forse pensa Letta, la gente si è stufata. Tralasciando qui l’ira funesta contro Matteo Renzi, molto più politica che personale e dunque ancora più acuta. E così dunque meglio la semplificazione. Il cacciavite lettiano serve a smontare la complessità. Non siamo dalle parti del grillismo – per carità – eppure anche qui spira l’aria del tempo.
Ecco la nuova frontiera lettiana, che di Romano Prodi e Beniamino Andreatta reca le stimmate che fanno comodo dimenticando che entrambi furono accorti e saggi navigatori del mondo scudocrociato ove l’arte del compromesso era diventata quasi una forma letteraria (la letteratura morotea delle “convergenze parallele” o la sua relazione congressuale che Giulio Andreotti chiamò il “De cauti connubi”).
Invece, in questa storia della legge Zan, ma non solo, niente compromessi, men che mai farsi trascinare «nel pantano delle negoziazioni» (ma Marco Pannella ha trattato una vita sui diritti), si guarda in faccia l’avversario e forse la sconfitta: la morte della politica. Ché la politica è capire le ragioni degli altri, insegna soprattutto il pensiero cattolico democratico ma anche Palmiro Togliatti, come ha perfidamente ricordato Lorenzo Guerini; e il compromesso (lasciamo stare la scoperta di un «berlinguerismo tardivo», come lo ha definito Guido Vitiello sul Foglio) non è altro che quello che descrive Amos Oz: «La parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte».
E invece ora il Pd di sinistra di Letta sembra preferire la logica della barricata votandosi al martirio come il piccolo Gavroche di Victor Hugo o magari, venendo più a noi, alla sconfitta operaia alla Fiat, o a quella di Romano Prodi che va alla conta a Montecitorio e perde dopo aver rifiutato di chiedere i voti di Francesco Cossiga, e pazienza se da quel preciso momento l’Ulivo chiuse per sempre i battenti.
Dice lui stesso, il segretario, che è molto cambiato nel suo lungo soggiorno parigino dove ha colto il dato della disuguaglianza crescente (ma questo c’era già in Marx) e quindi la necessità di una nuova radicalità, e chissà se per lui Parigi ha voluto anche significare dire basta alle critiche dei “comunisti” contro la Margherita “democristiana” e le allusioni alla parentela con un Mazzarino come lo zio Gianni (meglio allora rendere nota l’affinità, per quanto lontana, con Teresina Paulesu, la prediletta sorella di Gramsci): di qui anche una certa sordità, se non fastidio, per la sortita vaticana e l’insistenza propagandistico-psicologica contro l’orbanismo di Matteo Salvini, con il quale pure divide le politiche di governo.
Il Vaticano, la questione cattolica, l’incontro fra spirituale e temporale: roba da ripensare, per il partigiano Enrico che come il Johnny fenogliano resiste sulle sue posizioni in ogni circostanza innalzandole a bandiera morale con l’intransigenza del rivoluzionario che ignora la guerra di posizione e tanto più la scienza della ritirata: avanti avanti miei prodi fino alla sconfitta.
A Science Po può darsi che Enrico abbia inalato l’aria combattiva del Quartiere Latino e di St. Germain e che gli sia risuonato il leggendario Ce n’est qu’un debut pronto a essere brandito sia che la Zan passi sia che cada, è solo l’inizio di una rivolta delle coscienza che seppellirà, con il voto più che con una risata, i politicanti, gli inciucisti, i traditori – non ha che da leggere il Travaglio di questi giorni per saccheggiare una ben nota retorica fascistella.
Somiglia un po’ al frusto detto del “meglio un giorno da leoni che cento da pecora” questa esaltazione della purezza a scapito del risultato, con il rischio di finire come Rugantino che alla fine gongola: «Me n’hanno date tante ma quante gliene ho dette!».