Dopo vent’anni di contumelie agli americani perché nel 2001, dopo aver subito gli attacchi islamisti a Manhattan e Washington, invasero l’Afghanistan per rimuovere dal potere i talebani che avevano ospitato e protetto Osama Bin Laden nel suo progetto di guerra santa, adesso arrivano le contumelie agli americani perché si ritirano dall’Afghanistan lasciando avanzare i talebani dalle città da cui li avevano cacciati.
Il testacoda ideologico è evidente, ma un po’ gli americani e tutti noi ce lo meritiamo perché sapevamo tutti molto bene quali sarebbero state le conseguenze del disimpegno da un teatro di guerra che, con la strategia della carta moschicida, nel 2001 ha portato la lotta all’Islam radicale da downtown New York, dove in prima fila c’erano milioni di civili, alle montagne brulle intorno a Kandahar con truppe speciali ben equipaggiate per sconfiggere il nemico.
Lo sapeva Barack Obama quando ha cominciato ad avviare le trattative di pace con gli eredi del Mullah Omar, lo sapeva Donald Trump quando ha accelerato il ritiro delle truppe, lasciando Kabul alle influenze cinesi e turche, oltre che alle solite iraniane e pachistane e saudite e russe. Lo sapeva più di ogni altro Joe Biden che se n’è occupato per una vita da presidente della Commissione Esteri del Senato, e poi da vice di Obama, ma evidentemente l’attuale presidente non si aspettava che i fondamentalisti barbuti, e come si dice oggi maschi bianchi cis e patriarcali, potessero conquistare così velocemente terreno e favore nella popolazione.
Oggi siamo al punto in cui gli americani hanno chiesto ai talebani, attraverso i canali diplomatici, di usargli la cortesia di risparmiare l’ambasciata Usa a Kabul in cambio di aiuti economici prossimi venturi. Se questa forma di capitolazione vi ricorda quella del Pd con i Cinquestelle non siete i soli.
Ma in Afghanistan non c’è nulla di cui scherzare, anche perché laggiù scherzare potrebbe anche costare la testa agli spiritosi. Gli ex studenti coranici ormai attempati signori di mezza età stanno già operando una mattanza religiosa contro gli apostati traditori di Allah e contro i complici delle forze occidentali, cui avevamo promesso protezione e prosperità e invece li abbiamo abbandonati come tonni ingabbiati nelle camere della morte.
Con tutti gli errori e le mancanze, negli ultimi vent’anni gli afghani hanno dimezzato la mortalità infantile, incrementato le aspettative di vita della popolazione, aumentarto gli anni di frequentazione scolastica di ragazzi e ragazze e quasi decuplicato il numero dei laureati. Sono risultati piccoli ma anche giganteschi, in un paese guidato dalla barbarie.
Obama, Trump e Biden hanno deciso di abbandonare l’Afghanistan, pur conoscendo le conseguenze, perché vent’anni di presenza militare per tenere a bada gli islamisti e cercare di costruire un minimo di società civile, nonostante le significative conquiste di cui sopra, sono state comunque un investimento fallito, come racconta la repentina avanzata talebana di questi giorni. Ma il grande problema di questi vent’anni dall’11 settembre 2001 è che sono risultate errate tutte le strade alternative, tutte le dottrine e tutte le strategie. Nessuna di loro ha risolto la questione del Grande Medio Oriente. Sono riuscite a sconfiggere il terrorismo jihadista globale, il binladismo, costringendo le milizie islamiche a combattere a casa loro e tra di loro, a cominciare tra sunniti e sciiti e non solo, ma non a superare l’Islam politico. Ci sono qua e là segnali tenui di modernizzazione, di apertura e di vago allentamento delle più rigide versioni dell’Islam, ma siamo lontanissimi da un rinascimento musulmano o da una riforma islamica, come dimostra da ultimo l’elezione di un Torquemada con turbante alla presidenza dell’Iran.
Non ce l’ha fatta l’idea di esportare la democrazia in Iraq, nonostante il grande successo ottenuto nel secondo dopoguerra in Europa e in Asia, e non ha avuto fortuna la missione afghana che rispetto all’Iraq era limitata alla sicurezza e a ipotesi minimali di nation building. Non ce l’ha fatta nemmeno la strategia mordi-e-fuggi senza soldati sul terreno nella Libia di Gheddafi e neanche il mancato intervento umanitario in Siria con annessa umiliazione internazionale dell’America di Obama. In tutti e quattro i casi – Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, ma mettiamoci anche il patto firmato e poi stracciato con gli Ayattollah atomici – il risultato è stato simile: odio, stragi, profughi, caos.
Vent’anni dopo l’11 settembre hanno fallito sia le teorie liberatrici dei neoconservatori sia quelle chirurgiche dei realisti; ha fallito l’internazionalismo liberal, sia l’interventismo democratico sia il nazionalismo conservatore, così come il pacifismo, la trattativa e il se la sbrighino da soli.
Vent’anni dopo va accettato che nei paesi musulmani il peso millenario dell’organizzazione sociale e politica islamica è decisamente più radicato nei cuori e nelle menti dei fedeli rispetto alle giovani e imperfette pratiche democratiche occidentali.
Vent’anni fa si pensava che la traiettoria della storia pendesse inesorabilmente verso la giustizia, che la storia fosse finita con il trionfo della società aperta e che l’aspirazione massima dell’uomo, di tutti gli uomini a tutte le latitudini, fosse la libertà. Lo avevano imparato dopo la Seconda guerra mondiale, dopo la Guerra fredda e dopo la tragedia balcanica. Ma non è così in tutte le tradizioni e in tutte le culture, in particolare in quelle chiuse, rigide, patriarcali e senza distinzione possibile tra potere temporale e spirituale come sono quelle musulmane.
Vent’anni dopo l’11 settembre 2001, insomma, dopo averle provate tutte siamo punto e da capo: non sappiamo più che cosa fare per arginare la cultura d’odio dell’islamismo politico radicale (ammesso che esista un islamismo impolitico e moderato). Ci ritiriamo dall’Afghanistan ma ce ne pentiamo, assistendo disarmati ad altre stragi e aspettando inermi altre migrazioni. È il paradosso dell’Afghanistan. Nel frattempo, per non farci mancare niente, abbiamo sviluppato anche noi una cultura d’odio non religiosa, ma settaria, non di tradizione millenaria ma digitale e in tempo reale.