Crocchette senza polloLa carne sintetica potrebbe rivoluzionare l’industria alimentare (e aiutare la Terra)

L’agricoltura cellulare ha il potenziale per soppiantare la filiera di allevamenti intensivi. Ma non sarà così semplice creare un sistema di produzione sostenibile che sostituisca totalmente una industria pensata per mantenere artificialmente bassi i prezzi, sfruttando enormi economie di scala e spostando i costi su persone, animali e ambiente

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Il consumo intensivo di carne a cui l’uomo si è abituato nella seconda metà del ‘900 e nei primi anni del nuovo millennio non è più adatto a uno stile di vita sostenibile per il Pianeta. Per fortuna la tecnologia inizia a offrire potenziali alternative sempre più convenienti e preferibili. Un esempio su tutti è l’agricoltura cellulare, che negli ultimi anni è passata da materia di fantascienza a realtà concreta.

Nel dicembre 2020, l’azienda alimentare Eat Just, di San Francisco, ha lanciato la prima carne al mondo a base di cellule disponibile in commercio. Ma il primo prototipo di agricoltura cellulare presentato al pubblico è del 2013: un hamburger creato da un gruppo di ricerca dell’Università di Maastricht. La società che è nata da quel progetto, Mosa Meat, ora punta a immettere sul mercato carne bovina a base di cellule.

La maggior parte delle ricerche in questo campo è sostenuta da una rete globale di investitori milionari e venture capitalist che hanno investito più di 7 miliardi di dollari in questi anni. Due nomi su tutti: Richard Branson e Bill Gates. È soprattutto un’opportunità di mercato, ma nasce da un’esigenza comune, globale: gli esperti che studiano il clima e l’impatto ambientale della produzione alimentare concordano sul fatto che abbiamo bisogno di mangiare molta meno carne. Ed è qui che entra in gioco l’agricoltura cellulare. «Per risolvere la pollizzazione del nostro sistema alimentare non servono galline allevate al pascolo, ma crocchette senza pollo prodotte in serie», scrive il Guardian in una lunga inchiesta firmata da Jan Dutkiewicz e Gabriel Rosenberg.

Il punto di partenza dell’analisi è proprio il consumo colossale di pollo, in ogni forma possibile: «Gli americani – si legge nell’articolo – mangeranno circa 2 miliardi di crocchette di pollo quest’anno: un modo per trarre profitto dai pezzi che rimangono dopo che il petto, le cosce e le ali vengono tagliate dai circa 9 miliardi di polli che ogni anno negli Stati Uniti vengono allevati in fabbrica e macellati».

Le crocchette, chiamate anche pepite, sono un espediente narrativo perfetto perché non sono nemmeno fatte di carne vera e propria: sono soprattutto grasso e viscere, rese appetibili attraverso un processo di ultra-lavorazione. Una rappresentazione perfetta di quanto oltre si sia spinto il sistema di sovrapproduzione alimentare.

È per questo che, secondo il Guardian, la vera alternativa in grado di risolvere il problema legato ad allevamenti intensivi, emissioni insostenibili e tutto quel che si tira dietro questo meccanismo, è un tipo di carne diverso: «Un prodotto commestibile coltivato in vitro da cellule staminali animali, cioè l’agricoltura cellulare. Il discorso di vendita è la classica dinamica che segue da sempre la Silicon Valley: spodestare una tecnologia obsoleta, in questo caso gli animali, provando a guadagnarsi la benevolenza dell’opinione pubblica impegnandosi su una questione che riguarda il bene collettivo».

La filiera della carne infatti è pensata per mantenere artificialmente bassi i prezzi, sfruttando enormi economie di scala e spostando i costi su persone, animali e ambiente: l’industria deforesta grandi aree verdi, rilascia centinaia di milioni di tonnellate di gas serra ogni anno, crea condizioni di lavoro terribili e applica trattamenti orribili agli animali negli allevamenti.

Prendendo ad esempio il mercato americano, il Guardian fa notare che i consumatori spendono poco meno del 10% del loro reddito disponibile in cibo, e mangiano ben 122 chili di carne all’anno, di cui 55 di pollo. Ma il prezzo da pagare per i bassi costi è ormai noto a tutti: miliardi di polli geneticamente indistinguibili vivono e muoiono in condizioni brutali, in strutture progettate su alta efficienza e bassi margini di guadagno.

«Due cose – scrive il Guardian – ci hanno portato fin qui: la prima è la spinta irrefrenabile al profitto in agricoltura, che è in atto da almeno due secoli; la seconda è la proliferazione di politiche agricole che, negli Stati Uniti in particolare, non hanno creato nessuna regolamentazione del lavoro o in materia ambientale. L’intero sistema è stato progettato a beneficio dei proprietari di terreni agricoli e di grandi aziende agroalimentari».

AP / Lapresse

Lo sviluppo della biotecnologia e della scienza medica sta rendendo l’agricoltura cellulare una realtà. Le cellule staminali, gli elementi costitutivi di base della maggior parte degli organismi, sono state identificate negli anni ’60. La crescita del tessuto muscolare in vitro è diventata possibile negli anni ’70 e la prima ricerca sottoposta a peer review sulla produzione di carne in vitro è stata pubblicata nel 2005.

Per una biotecnologia all’avanguardia, l’agricoltura cellulare è in realtà un processo abbastanza semplice da un punto di vista pratico: le cellule staminali raccolte – di solito – da animali vivi vengono poste in un bioreattore, una vasca d’acciaio asettica a temperatura e pressione controllata e riempita con un prodotto di crescita denso di sostanze nutritive; in queste condizioni, le cellule proliferano e si differenziano per formare il tessuto. Il primo prodotto è quello che viene definito «massa umida» (wet mass), che viene poi lavorata in vari modi per produrre il tipo di carne che si vuole.

«I tecno–ottimisti intravedono un futuro in cui mangeremo “carne pulita”, ecologicamente ed eticamente superiore all’originale, tanto quanto l’energia solare è migliore del carbone. Gli oppositori vedono carne da laboratorio controllata dalle aziende che si inserisce fin troppo comodamente in un sistema alimentare capitalista danneggiato», sottolineano Dutkiewicz e Rosenberg.

L’uso dell’agricoltura cellulare presenta pro e contro, come qualsiasi cosa nel campo della tecnologia. Tra i potenziali vantaggi c’è quello ambientale: questi processi utilizzerebbero molta meno terra e acqua e avrebbero un’impronta di carbonio inferiore rispetto alla carne bovina e ai prodotti lattiero–caseari.

In più, si eviterebbe la tortura e l’uccisione di miliardi di creature ogni anno e si ridurrebbe notevolmente il rischio che le malattie si diffondano dagli animali all’uomo – il potenziale dannoso della zoonosi l’abbiamo compreso bene negli ultimi 18 mesi.

Inoltre, l’agricoltura cellulare aiuterebbe a ridurre le pratiche di lavoro abusive dei macelli. Il lavoro richiesto per la coltura della carne è altamente tecnico e comporta un attento monitoraggio, manutenzione e regolazione dei bioreattori: i laboratori di agricoltura cellulare offrirebbero posti di lavoro meglio retribuiti rispetto ai macelli, e sarebbero anche ambienti di lavoro più sicuri e più sani (anche se probabilmente non per la stessa forza lavoro).

Poi però bisogna guardare anche all’altro lato dello spettro. Se è vero l’agricoltura cellulare può migliorare il sistema che vuole rimpiazzare, allora deve svilupparsi lungo direttive corrette, in modo da non esternalizzare i costi reali della produzione sui lavoratori, sui consumatori o sull’ambiente. E non è detto che non si creino pratiche tossiche anche nella nuova filiera.

«Ci sono dubbi sul fatto che la produzione possa crescere in modo sicuro e conveniente, e alcune pratiche di agricoltura cellulare devono essere accantonate. Ad esempio, le attuali tecniche di produzione di molte aziende, comprese quelle utilizzate da Eat Just per le sue crocchette vendute Singapore, utilizzano il siero di feto bovino come mezzo di crescita cellulare, che viene raccolto dal sangue dei feti di vacca durante la macellazione», scrive il Guardian.

C’è anche un tema, ancor più delicato, legato alla dimensione politica degli investimenti nella ricerca: alcune ricerche sull’agricoltura cellulare vengono svolte presso università pubbliche con il supporto di Ong, ma la maggior parte della ricerca e dello sviluppo mondiale lo fanno gli istituti privati.

Ma il fatto che il settore privato veda del potenziale in una tecnologia che i governi hanno per lo più ignorato genera un problema politico. «Ciò di cui abbiamo bisogno – scrive il Guardian – sono istituzioni pubbliche che possano sviluppare l’agricoltura cellulare e controllarla con investimenti pubblici, regolamentazione e concessione di licenze».

Allora la storia può essere una buona consigliera per capire le prossime mosse da fare. Forse il modo migliore per superare queste sfide, spiegano Dutkiewicz e Rosenberg nel loro articolo, è mettere in atto la stessa strategia utilizzata dal governo degli Stati Uniti per industrializzare l’agricoltura un secolo fa: investire in modo massiccio in ricerca e sviluppo attraverso università pubbliche, laboratori nazionali e generosi sussidi.

Tra l’attenzione che gravita attorno al Green New Deal e le ambizioni dell’amministrazione Biden per una politica globale sulla crisi climatica – immaginando gli Stati Uniti come vertice di una piramide di investimenti – si apre un ampio ventaglio di opportunità per gli investimenti pubblici in una tecnologia ecologicamente responsabile.

Tutto ciò potrebbe servire ad abbassare le barriere all’ingresso nel settore e potrebbe aiutare con l’istituzione di regolamenti per garantire standard di sicurezza a livello di settore. I regolamenti e le autorizzazioni dovrebbero anche prevedere che gli stabilimenti di coltura della carne siano luoghi di lavoro sindacalizzati e che, ove possibile, i lavoratori qualificati spostati dall’industria della carne convenzionale abbiano la precedenza nell’assunzione.

«Un mondo in cui le crocchette di pollo prodotte in fabbrica sono sostituite da quelle prodotte nel bioreattore – conclude il Guardian – sarebbe una vittoria monumentale per gli animali e l’ambiente. Se legato a una politica industriale e agricola progressista, potrebbe anche essere una vittoria per il lavoro, gli investimenti pubblici, l’uso del suolo e i campioni dell’agricoltura sostenibile. No, questa non sarebbe una soluzione immediata e magica ai molti mali della produzione alimentare: non c’è questa panacea. Ma è un inizio».

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