Il calcio perfettoSarà banale dirlo, ma il pallone è molto più di uno sport

Il football, come lo chiamano gli inglesi, è al centro della vita quotidiana di milioni di tifosi che ne sono attratti per tutte le sue particolarità che col campo hanno a che fare molto relativamente. E proprio per questo rendono immortale il rettangolo da gioco

Esultanza dopo un gol dell’F. C. United of Manchester, in una partita del 2017. Al momento della fondazione della squadra, nel luglio del 2005, circa 700 dei suoi soci fondatori si riunirono nella Central Methodist Hall della città inglese per eleggerne il board

La premessa di questo scritto è che il calcio non sia uno sport, ma qualcosa di molto più rilevante. Peraltro, non esiste un solo modello di calcio, ma innumerevoli tentativi che aspirano a una perfezione calcistica che coincida con la sensazione della felicità. Le differenze non risiedono nel fare il calcio per professione o per passione, ma nella capacità di avvicinarsi a un calcio perfetto.

Il calcio è molto difficile da comprendere nella sua essenza più profonda. La dimensione che meglio lo circoscrive non è quella sportiva e nemmeno quella economica, bensì quella del gioco. La natura del gioco protegge il calcio da ogni forma di egemonia. Il gioco, infatti, è una dimensione dove il piacere si può riprodurre in qualunque contesto. Quindi non esiste (anche se a tutti così appare) alcuna piramide calcistica con al vertice il ricco professionismo e alla base la pratica giovanile o amatoriale. Il calcio è abitato da milioni di storie che – come diceva Borges – «ricominciano ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per strada».

Per andare a fondo nei significati del calcio è opportuno dividere questo discorso in quattro parti.

Il calcio come vissuto paradisiaco
Il calcio offre molte opportunità per essere vissuto. Ci si può occupare di calcio giocando, allenando, arbitrando, tifando o, in un’accezione più integrale, dando vita a progetti calcistici.

Occuparsi di calcio è un esperimento che deriva dalla convinzione che sia possibile vedere in questo gioco un modo per abitare concretamente uno dei più ancestrali miti delle nostre origini: il paradiso terrestre. Generalmente pensiamo al paradiso come a un lontano riferimento religioso che poco ha a che vedere con la concreta condizione in cui siamo obbligati a vivere. In realtà, il paradiso non si allontana mai dalla nostra prospettiva esistenziale, poiché solo in quel luogo viene rappresentata “la vita così come dovrebbe essere”.

Nella mente di chi vive il calcio prende forma un interrogativo, apparentemente assurdo, che si chiede se in fondo non sia proprio questo gioco a corrispondere all’ideale paradisiaco. Si tratta di un quesito a cui si può avere il coraggio di rispondere affermativamente, non solo quando si è bambini, ma anche quando da adulti, e dopo aver già vissute molte esperienze, si decide, a ragion veduta, quale sia la miglior maniera per avere a che fare con il mondo.

Naturalmente, la parentela paradisiaca del calcio non deriva dalla sua antropologia che, come e più di altri ambiti, viene riassorbita dall’attrazione materiale per il denaro e da altre forme di miseria umana. Nemmeno l’epica dei suoi eroi, per quanto suggestiva e ben raccontata, è sufficiente a rendere il calcio una dimensione paradisiaca. La straordinarietà del calcio discende dalla possibilità di identificare in esso una forma di perfezione esistenziale. La questione calcistica è, quindi, una questione filosofica al cui vertice si posiziona la partita di calcio.

La partita è un evento (allo stesso tempo unico ma sempre ripetibile) che assume la caratteristica dell’indispensabilità. Anche la gara apparentemente più banale viene vissuta in maniera decisiva e definitiva. In ogni partita si compie il miracolo di una sospensione del tempo. Solo chi non sa che cosa sia il calcio può pensare che una partita duri 90 minuti. Il tempo dilatato del calcio racchiude un sentimento eterno che può essere compreso esclusivamente attraverso un’esperienza vissuta.

Breve storia per immagini dell’F. C. United of Manchester, la squadra fondata “per protesta” da alcuni tifosi del Manchester United.


Il calcio come linguaggio universale

Poche cose al mondo sono più conosciute del calcio. Non si tratta della sua diffusione globale, bensì dell’universalizzazione del suo linguaggio. Tutti possono parlare di calcio. Ma di cosa parliamo quando parliamo di calcio? Non è semplice rispondere a questa domanda, poiché quando parliamo di calcio non ci riferiamo a un argomento definito, ma a qualcosa che consideriamo dentro di noi. Il discorso calcistico rappresenta un senso comune in cui ognuno, attraverso infinite e infaticabili discussioni, definisce sé stesso e il proprio rapporto con l’altro.

Il fatto che ognuno ritenga di poter parlare di calcio è sorprendente. Il calcio non si insegna a scuola, anzi è quasi bandito dalle istituzioni formative. Tuttavia, almeno nei Paesi profondamente influenzati dal calcio come l’Italia, i cittadini dispongono di nozioni calcistiche straordinariamente superiori a quelle possedute in ambiti – apparentemente più necessari alla vita – come l’economia, la politica e la scienza. In realtà, le cose che sappiamo sul calcio non le abbiamo apprese in luoghi o forme definite, ma sentiamo di conoscerle da sempre.

Parlare di calcio, tuttavia, è cosa diversa dal parlare con il calcio. Se nel primo caso ci riferiamo a un “discorso senza fine” che diviene elemento dell’identità personale, invece le parole pronunciate all’interno dei luoghi del calcio assumono un significato comunicativo molto definito: un ordine o un aiuto, un insulto o un elogio, ma sempre con una finalità esplicita. Nessuna parola interna al calcio viene pronunciata senza uno scopo.

Alla luce dell’essenzialità della parola calcistica, l’alluvione oratoria con cui il calcio viene rappresentato mediaticamente non può che rappresentare una dimensione esterna al calcio. La discussione mediatica, però, non si accontenta di riconoscersi nella nobile inutilità di un parlare circolare, ma pretende di dare una forma al calcio. In realtà, appartiene più al calcio un anonimo guardalinee impegnato su un campo di provincia di qualunque opinionista che parla di calcio in televisione. Sulle superfici di discussione mediatica non compare il calcio, ma solo il suo logorroico fantasma.

Se il linguaggio della rappresentazione mediatica allontana dalla verità del calcio, ciò che invece la esalta è il linguaggio della comunità che riconosce al calcio la capacità di “parlare” senza bisogno di qualcuno che ne descriva i contenuti. È questa emersione naturale del linguaggio che rende il calcio uno straordinario strumento di relazione sociale.

La lingua del calcio – qualora la si sappia adeguatamente interpretare – è in grado di produrre meravigliosi risultati nella condizione emotiva di una comunità, così come permette di superare qualunque discriminazione e di riconoscere il valore di ogni identità. Sopra ogni cosa, però, il linguaggio calcistico chiede di non essere infastidito dal rumore di fondo di bulimie dialettiche tanto polemicamente fanatiche quanto ipocritamente retoriche.

Il calcio come fenomeno spirituale
Il calcio possiede certamente più spirito che materia. La perfezione calcistica viene ricercata sul campo attraverso tattiche di gioco sempre nuove, ma si tratta di tentativi destinati a restare inesorabilmente sconfitti. Solo in senso spirituale il calcio può divenire perfetto. Vivere il calcio come fenomeno spirituale significa percepirne la dimensione essenziale e non solo l’elemento apparente.

Potremmo, a ragion veduta, sostenere che il calcio sia una manifestazione religiosa. Le affinità tra il calcio e la religione sono evidenti: lo stadio è un tempio, la liturgia viene osservata, i protagonisti assurgono alla beatificazione e, infine, tutti attendono messianicamente l’evento fondamentale del gol. L’equivalenza con la religione, però, rischia di degradare il calcio. Ogni dimensione religiosa, infatti, è indirizzata verso una ritualità che, col tempo, prende il posto dello spirito vitale. Il calcio, invece, è pura vita che si declina in un eterno presente.

Sebbene lo spirito del calcio sia imprevedibile e fuggevole, coglierne l’essenza significa saper trasformare la tensione ossessiva della competizione nella pacificata felicità del gioco. È questo il mutamento spirituale che permette di vivere una giornata di calcio perfetto.

Una giornata di calcio perfetto si annuncia attraverso un’atmosfera leggera e sorridente in cui tutto assume una dimensione naturale. Il vincitore trionferà e il perdente verrà sconfitto oppure i contendenti raggiungeranno un pareggio, ma chiunque riconoscerà nel proprio destino l’esatta manifestazione di una necessità trascendente. Ogni autentico ricordo calcistico rimanda a una giornata di calcio perfetto.

Vivere il calcio come fenomeno spirituale permette di conoscere sé stessi. Dal gioioso giocare a pallone dei bambini alla meravigliosa alchimia che negli adulti, intorno a una partita di calcio, mescola ricordi, fratellanze e sensazioni di libertà, nello spirito del calcio si esprime la purezza di un desiderio non raggiungibile dal semplice sforzo della volontà.

Il calcio come dialettica di potere
Il calcio, nella sua dimensione perfetta, non ha padroni. Il calcio non appartiene agli interessi economici che lo guidano, ma nemmeno ai tifosi che lo seguono per pura passione. Il calcio è allo stesso tempo di tutti e di nessuno. Così dovrebbe essere. Poiché, però, il calcio – come ogni realtà che abita il mondo – raramente raggiunge la perfezione, è naturale che esso possa divenire anche uno strumento del potere.

Sono molte le circostanze in cui il calcio è divenuto un mezzo per raggiungere le più diverse finalità del potere politico. La strumentalizzazione politica è dannosa perché rappresenta l’inganno di una retorica che impone aggettivi: calcio nazionalista, calcio democratico, calcio popolare sono tutte definizioni che riducono l’efficacia sociale del calcio.

Ben più insidiosa della strumentalizzazione politica è quella che intende trasformare il calcio in un semplice settore economico del divertimento. La strategia dello show business genera l’illusione di un miglioramento del calcio, ma le finalità introdotte dal denaro allontanano inesorabilmente dal sentimento calcistico.

Oltre alle strumentalizzazioni della politica e dell’economia, esiste anche una dialettica di potere interna al calcio ed è questa la partita più interessante da giocare. La configurazione che assume il potere interno al calcio è quella di un dogma dell’esperienza, dove un mondo che si autodefinisce “addetto ai lavori” sembra avere l’unico obiettivo di cancellare il piacere generato dal calcio.

Tanti (anzi, sicuramente troppi) sono i momenti in cui una malintesa autorità della tradizione calcistica intende imporre il proprio dogma. Lo vediamo nell’ossessione che impedisce di gioire dopo le vittorie e nella nevrosi che rende incapaci di sostenere le sconfitte. Ma soprattutto lo si percepisce nelle facce dei bambini che serrano i denti per non ascoltare le grida esaltate dei genitori sugli spalti o quelle invasate degli allenatori in panchina.

Rompere questi tabù – costringendo tutti a confrontarsi non solo con il risultato ma anche con la capacità di produrre piacere e felicità – è la più interessante dinamica di potere che può essere attivata all’interno del mondo calcistico. Liberare il calcio dalla gabbia di una contraddizione che costringe il gioco più bello del mondo a esprimersi attraverso la tensione e la sofferenza rappresenta la sfida più entusiasmante per chi aspira a concretizzare l’ideale di un calcio perfetto.

Alessandro Aleotti è una figura eclettica del panorama intellettuale milanese. Ha fondato il Brera Calcio, un club eterodosso che, nonostante sia sempre restato nel dilettantismo, tutti considerano come “la terza squadra di Milano”

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