Conflitto costante globale Lo scontro Cina-Australia e gli equilibri geopolitici mondiali

Pechino con il tentativo di colpire la poco accomodante Canberra con ritorsioni economiche, allo scopo di avvertire altri Paesi dei costi di una ribellione al potere cinese, ha finito per evidenziare invece la propria debolezza

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Australia contro Cina è un po’ un Davide contro Golia. E il finale, per l’appunto, può essere una bella sorpresa, spiega l’Atlantic in un articolo. La Cina è la grande potenza dell’Asia, o almeno così crede Pechino, e l’Australia è un partner duro a piegarsi, impegnato nel rispetto dei diritti umani e sostenitore delle indagini sul coronavirus in terra cinese. Pechino ha fatto ricorso alla pressione economica per costringere l’Australia ad allinearsi. «Gomma da masticare attaccata alla suola delle scarpe cinesi. E a volte devi trovare una pietra per strofinarla via»: così Hu Xijin, l’editore del Global Times gestito dal Partito comunista cinese, ha definito l’Australia lo scorso anno.

Ma gli australiani si sono rivelati impossibili da scuotere, e hanno causato qualche imbarazzo al loro aguzzino. «L’Australia è un alleato cruciale dell’America in Asia, quindi le azioni della Cina nei confronti del Paese influenzano inevitabilmente sia la politica di Washington sia la sua posizione nella regione. L’Australia è rappresentativa di molti Paesi: una nazione di medie dimensioni le cui relazioni economiche con Pechino sono vitali per la crescita e l’occupazione ma in cui, allo stesso tempo, i politici e i cittadini sono sempre più preoccupati per le tattiche repressive della Cina in patria e per le aggressioni all’estero», spiega il quotidiano.

L’Australia «è un po’ un canarino nella miniera di carbone», spiega Jeffrey Wilson, direttore della ricerca presso il Perth USAsia Centre, un think tank di politica estera. «Dovremmo preoccuparci di quello che gli sta succedendo, perché poi potrebbe accadere a tutti». Ma l’esito della sfida non è così scontato.

Per la Cina, una potenza in ascesa con 1,4 miliardi di persone e un’economia di 14,7 trilioni di dollari, dovrebbe essere facile calpestare un Paese che ha 26 milioni di abitanti e che piò contare su un’economia più di dieci volte più piccola. «Ma in un mondo avvolto da catene di approvvigionamento interdipendenti e complesse connessioni politiche, anche Paesi non troppo grandi possono impugnare un sorprendente arsenale di armi. L’ordine globale guidato dagli Stati Uniti, che è ancora tenuto insieme da interessi comuni, relazioni di vecchia data, freddo calcolo strategico e ideali profondamente sentiti, non è pronto a sgretolarsi davanti alla marcia dell’autoritarismo cinese», si legge ancora.

Quindi il messaggio che emerge è uno: la Cina che vuole fortemente controllare il mondo non riesce nemmeno a cambiare un vicino arrogante nei suoi confronti. Perché? Innanzitutto l’Australia è un pilastro fondamentale della rete di alleanze che sostiene il dominio americano in Asia e nel Pacifico. I legami di Washington con Canberra negli ultimi tempi stanno diventando ancora più importanti. Al tal punto che l’intero dossier non è passato inosservato alla Casa Bianca.

«I migliori diplomatici del presidente Joe Biden sono stati chiari nel loro sostegno all’Australia». Come del resto ha ribadito anche il responsabile americano della politica asiatica, Kurt Campbell, «gli Stati Uniti non sono disposti a migliorare le relazioni in un contesto bilaterale e separato mentre uno stretto e caro alleato è sottoposto a una forma di coercizione economica. Non lasceranno l’Australia da sola sul campo».

Ma cosa sta succedendo tra Australia e Cina? Canberra molti anni fa ha siglato importanti accordi con la Cina, e le due economie si sono intrecciate in una relazione simbiotica altamente redditizia: il tesoro naturale australiano è diventato indispensabile per la macchina industriale in rapida espansione della Cina. E i due Paesi, nel 2015, hanno persino stipulato un accordo di libero scambio.

Ma l’Australia, fin da subito, non si è dimostrata impassibile verso alcuni comportamenti dell’alleato. La bellicosa politica estera del presidente cinese Xi Jinping non è stata ben vista da Malcolm Turnbull, che come primo ministro dal 2015 al 2018 è stato determinante nel forgiare la risposta dell’Australia.

Canberra ha criticato più volte le invasioni della Cina sul Mar Cinese Meridionale, che è vitale per la navigazione australiana e in cui Pechino ha costruito installazioni militari su isole artificiali per consolidare la sua presa su quell’intero specchio d’acqua. Ciò ha portato a una nuova legislazione progettata per ridurre l’influenza straniera. «E nel 2018 il governo di Turnbull ha vietato al colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei di fornire apparecchiature per le reti 5G australiane, considerandolo un rischio eccessivo per la sicurezza delle infrastrutture essenziali», aggiunge l’articolo.

Le relazioni sono precipitate nell’aprile 2020, quando il governo dell’attuale primo ministro Scott Morrison ha chiesto un’indagine indipendente sulle origini dell’epidemia di coronavirus, una questione spinosa per Pechino, dove tali richieste sono percepite come sforzi politicamente motivati per infangare la Cina.

E così per costringere Canberra a fare marcia indietro, il governo cinese ha sfoderato quella che è diventata la sua arma preferita contro le nazioni recalcitranti: la coercizione economica. «Tra le misure adottate, le autorità cinesi hanno sospeso le licenze di esportazione dei principali produttori di carne bovina australiana, hanno imposto tariffe punitive su orzo e vino e hanno incaricato alcune centrali elettriche e acciaierie di smettere di acquistare carbone australiano», spiega il quotidiano.

Il Perth USAsia Centre calcola che l’Australia ha perso 7,3 miliardi di dollari di esportazioni in un periodo di 12 mesi. Alcune industrie sono state colpite in modo particolarmente duro: l’industria delle aragoste, quasi totalmente dipendente dai commensali cinesi, è stata decimata dopo che Pechino ha effettivamente vietato l’import.

Canberra però non ha mollato. «Dobbiamo semplicemente mantenere la nostra posizione. Se cedi ai bulli, sarai solo costretto a cedere di più», afferma Turnbull. «Non puoi scendere a compromessi sui tuoi valori fondamentali e sui tuoi interessi fondamentali».

Almeno fino a oggi, l’Australia ha resistito imperterrita. Pechino non è stata in grado di far cedere Canberra, e le esportazioni sacrificate ammontano a solo lo 0,5 per cento della produzione nazionale australiana. Non sono briciole, ma non è neppure una quota che possa innescare una crisi. Alcuni settori si sono adattati diversificando le loro basi di clienti. Parte del carbone bloccato dalla Cina è stato reindirizzato ad acquirenti in India. Al contrario, Pechino non può fare a meno del minerale di ferro australiano, linfa vitale dell’industria edile cinese, e del litio australiano, che è alla base dell’industria cinese dei veicoli elettrici.

La campagna di pressione di Pechino, però, ha avuto un successo inaspettato: inasprire gli australiani nei confronti della Cina. «In un recente sondaggio del Lowy Institute, il 63 per cento degli intervistati ha affermato di vedere la Cina più come una minaccia alla sicurezza che come un partner economico per l’Australia – un aumento di 22 punti percentuali in un anno», si legge sull’Atlantic.

Tutto ciò non ha fatto altro che avvalorare le tesi dei politici australiani. «Probabilmente prima c’era una relativa unità bipartisan sulla costruzione del rapporto con la Cina», ha detto McGregor. Adesso «è una sorta di visione bipartisan nella direzione opposta», continua.

Pechino invece non ha mosso nessun passo indietro. Dal punto di vista dei leader cinesi, gli australiani hanno oltrepassato il limite. Zhao Lijian, un portavoce del Ministero degli Esteri cinese, ha dichiarato alla fine dello scorso anno che la causa principale della controversia è stata «una serie di mosse sbagliate» delle autorità australiane.

Come si risolve l’impasse? Per il momento nessuno lo sa. «Molto più chiaro è invece ciò che lo stallo ci dice sulla posizione della Cina nel mondo. Alla fine, il tentativo di Pechino di usare l’Australia per avvertire altri Paesi dei costi di una ribellione al potere cinese ha finito per evidenziare invece la sua debolezza», spiega il giornale.

Tuttavia, dall’esempio dell’Australia emerge un messaggio ancora più oscuro: la Cina potrebbe non essere riuscita a cambiare l’Australia, ma nemmeno l’Australia ha cambiato la Cina. Ciò offre la terrificante prospettiva di un nuovo ordine mondiale caratterizzato da un conflitto quasi costante, se non militare, almeno economico, diplomatico e ideologico. E allo stesso tempo, «la lotta della Cina con l’Australia adesso potrebbe avere conseguenze a lungo termine per i suoi legami economici con altri Paesi. Molti politici sono già preoccupati che la dipendenza economica dalla Cina possa compromettere la loro sicurezza nazionale», conclude l’articolo. E hanno ragione nel crederlo.

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