Locali buoniIl ristorante è per tutti

A Reggio Emilia apre Rita Pieve, un luogo dove il modello self service diventa un fatto di cultura sociale comune, senza limiti e senza barriere. Progettare una ristorazione inclusiva è una questione di volontà

Prendi il vassoio, scegli quello che ti piace, lo chiedi, ti appoggi al banco, raccogli posate/piatti/bicchieri/pane/acqua e poi ti siedi svolazzando fra un tavolo e l’altro, solitamente in equilibrio precario. In un normale ristorante self service accade così. Non per tutti però. E dal postulato che i luoghi non sono «sempre» per tutti, ha inaugurato a metà giugno in terra emiliana il progetto Rita Pieve, il primo self service in Italia «inclusivo», realizzato da CIRFOOD, cooperativa italiana di ristorazione collettiva, in collaborazione con C.E.R.P.A Onlus, Centro Europeo di ricerca e promozione dell’accessibilità, in coerenza con CRIBA «B. Diritto alla Bellezza», promosso da Reggio Emilia Città Senza Barriere. 

«Il progetto è nato più di un anno fa nel nostro territorio, sullo stimolo del progetto «B. Diritto alla Bellezza» di Reggio Emilia Città Senza Barriere» racconta Maria Elena Manzini, CSR Manager di CIRFOOD «Una grande opportunità, che ha indirizzato l’azienda nella realizzazione di un locale che fosse inclusivo, ma che non sacrificasse necessariamente il lato estetico e architettonico, rendendolo fruibile e accogliente per tutti – anche (ma non solo) per anziani, bimbi, persone con disabilità – e dove la possibilità di socializzazione e partecipazione è amplificata e semplificata. Oggi Rita Pieve è a pieno regime, con un servizio self service, bar e pizza che si estendono su una superficie di 550 mq con 122 posti a sedere più un dehors esterno». 

Il percorso di Rita Pieve è iniziato nel 2019 con un workshop esperienziale, dove alcuni rappresentanti di CIRFOOD si sono confrontati e hanno pranzato insieme a un gruppo di persone con disabilità, anche molto diverse fra loro – motorie, visive, neurologiche – toccando con mano le problematiche di ciascuna categoria e facendo esperienza pratica sulle diverse necessità. Un vero e proprio laboratorio immersivo che ha dato vita alla progettazione per la ricerca e lo sviluppo di un ristorante self service realmente fruibile, indipendentemente da età o abilità. Un approccio progettuale innovativo e di ricerca su scala edilizia, d’arredo e di comunicazione, strutturato con le persone per le persone, e finalizzato all’integrazione culturale. 

«Proprio per questo» sottolinea Manzini «abbiamo chiesto una consulenza al C.E.R.P.A, Centro Europeo di ricerca e promozione dell’accessibilità, che ci ha aiutati nel trovare le soluzioni più adeguate. La (doverosa) premessa è che non esiste un locale perfetto per tutti, ma può esistere un «buon» locale per tutti».

A partire dalla parte strutturale dell’edificio, con una segnaletica podotattile, studiata per gli ipovedenti, che dai posteggi accompagna fino al locale, e una interna, con mappe tattili in ingresso e all’accesso dei blocchi bagno per far percepire la struttura del locale. Per chi lo necessità e lo desidera, c’è un sistema di chiamata per l’assistenza, per far intervenire lo staff. Da qui si accede a una prima sala, un’area calma, dove è possibile rilassarsi grazie al ridotto impatto acustico, e la sala dove pranzare, con tavoli ben distanziati fra loro per facilitare la movimentazione.

«Abbiamo cercato di rendere ogni stanza fruibile e ottimizzabile per tutti» aggiunge la CRS di CIRFOOD «un esempio sono i bagni, che sono stati progettati per essere realmente adattabili a ogni esigenza, senza differenze di genere o di disabilità. Ogni bagno è dotato di una porta scorrevole con una maniglia verticale prensile che aiuta l’apertura, e specchi a diverse altezze, ideali anche per i bambini. Quello che per noi è un punto di merito è che i nostri clienti abituali non hanno colto le differenze architettoniche con gli altri locali a format CIRFOOD, il che ci dice che abbiamo centrato l’obiettivo: essere inclusivi senza stravolgere i canoni estetici e senza sottolineare le differenze». 

All’entrata c’è un carrello che aiuta il trasporto dei vassoi, una soluzione che può essere valida sia per una famiglia con bambini sia per disabili, i banconi del bar e del self service hanno una zona ribassata per consentire in maniera agevole il passaggio di bevande e cibi. Anche a livello di apparecchiatura sono state prese delle accortezze «furbe», sia nelle posate sia nei bicchieri, che sono dotati di manico per avere una inclinazione più sicura, o i piatti con bordi alti per permettere di raccogliere meglio il cibo sulla posata. Banalmente le porte sono scorrevoli e non a spinta e le cromie di bancone e vassoi sono a contrasto, per risultare più facilmente distinguibili anche da chi è ipovedente. Insomma tutto per fare in modo che sia più facile accedere e muoversi all’interno del self service.

«Molto interessante è stato anche il percorso formativo del personale» specifica Maria Elena Mazzini «perché non è solo il luogo a contare, per noi la differenza la fanno le persone. È stato necessario far comprendere loro il valore che sta dietro questo progetto, per questo sono stati coinvolti non solo il personale del locale, ma anche i colleghi che si occupano di progettazione e i nostri architetti. La modalità di formazione è stata duplice, una decisamente innovativa, l’altra più didattica. La prima giornata è stata un momento di confronto con coloro che si sono resi disponibili nel primo workshop, in primis per dare loro un riscontro reale del contributo che hanno dato e fare un double check sulle misure apportate, per capire se avessimo messo in campo le mosse «giuste». Il secondo giorno invece è stato più didattico, centrato sull’accoglienza e sulla sensibilizzazione del personale, sull’accortezza nel non imporsi, ma nell’essere pronti all’aiuto per chi ne ha bisogno e per chi lo richiede».

Rita Pieve rappresenta un progetto pilota a livello nazionale nella ristorazione self service «che vorremmo utilizzare come patrimonio di conoscenza per il futuro, di modus operandi per i progetti che verranno, per renderlo un fatto culturale, un esempio da tenere presente per la ristorazione che verrà. La nostra azienda opera in 74 province e vorremmo che questo fosse il primo passo per cambiare «ottica», per dare al settore una virata che riempia di significato la parola «inclusione»», conclude Maria Elena Manzini.