Le cose in cui crediamo hanno una storia. Come storica delle religioni, io lo do per scontato. Ma mi ero dimenticata di quanto questo concetto risultasse invece estraneo a molti evangelici negli Stati Uniti.
Gli evangelici si identificano come cristiani “che credono nella Bibbia”: i pastori evangelici predicano “valori biblici” e i leader evangelici promuovono valori “tradizionali” nella sfera secolare e pubblica, intervenendo su argomenti come, ad esempio, la politica fiscale e il controllo delle armi.
Tutte queste convinzioni sono impacchettate e vendute come bibliche, immutabili ed eterne.
Gli evangelici non sono i soli a considerare come eterne e immutabili le cose in cui credono: per i credenti di tutti i tipi, il concetto stesso di verità assume un’aura di eternità. Una simile certezza può però essere resa più complicata dalla conoscenza della storia. La storia rivela che accanto a elementi che hanno una continuità nel tempo, ci sono anche molti cambiamenti rilevanti e dimostra come molte delle cose che passano per essere tradizionali abbiano, in realtà, un’origine piuttosto recente. Inoltre, collocando in un contesto più ampio i fenomeni che studia, la storia rivela anche quanto i fattori economici, politici e sociali possano influenzare le cose che le persone ritengono vere in una determinata epoca.
Gli evangelici sono tuttavia rimasti ignari, in modo straordinario, di quali connessioni vi siano tra le loro stesse storie e la storia in generale. Non è che gli evangelici ignorino del tutto la storia, è che tendono a preferire una versione tutta loro degli eventi. A livello popolare, alcuni pseudostorici hanno fatto strame delle testimonianze della storia per tessere racconti fantasiosi sulle origini cristiane dell’America. E, all’interno dei circoli accademici, alcuni storici evangelici hanno prodotto delle narrazioni che tendono a minimizzare i lati oscuri della loro tradizione religiosa.
Un resoconto più complesso della storia dell’evangelicismo è straordinariamente destabilizzante per chi si sia sempre confrontato soltanto con un ritratto edulcorato del proprio passato. Gli evangelici sono sconvolti, ad esempio, nell’apprendere che il reverendo Billy Graham era politicamente ambizioso, aveva promosso il militarismo americano e aveva passato sotto silenzio delle atrocità avvenute in Vietnam. Oppure quando vengono a sapere che, riguardo ai diritti civili, il bilancio che lo riguarda è decisamente altalenante. Questo non è il Graham che conoscevano e amavano.
Anche quando si mostri semplicemente che le cose non sono sempre state come lo sono adesso, la storia può risultare destabilizzante. Per esempio, c’è stato un tempo in cui molti protestanti conservatori rifiutavano l’idea stessa di “America cristiana”. E quelli a cui è stato insegnato che il patriarcato è un elemento essenziale dell’ortodossia cristiana sarebbero sorpresi se conoscessero la lunga storia del femminismo nel movimento evangelico.
Gli evangelici hanno anche creato un ampio network economico e culturale che rafforza un’autopercezione acritica e sprovvista di complessità. Stazioni radio cristiane, case editrici cristiane, testi scolastici cristiani e programmi per l’istruzione impartita in casa rafforzano una narrazione che dipinge gli evangelici come i bravi ragazzi che lavorano coraggiosamente per conto di Dio in questo mondo. I peccati della nazione – razzismo, sessismo, xenofobia, nazionalismo bianco – sono dipinti non come problemi tradizionalmente endemici, ma come deragliamenti dal “vero evangelicismo”. Le critiche che provengono dall’esterno sono ignorate o vengono derubricate ad attacchi aggressivi, e questo contribuisce a rafforzare il complesso di persecuzione degli evangelici. E, dal momento che in questo network economico-culturale sono in gioco profitti enormi, ragioni ideologiche e ragioni finanziarie convergono nello sforzo di non far allontanare i consumatori evangelici dall’ovile.
La consapevolezza che quello in cui si crede abbia una storia non preclude la possibilità di affidarsi a verità che stanno al di sopra della storia e non impedisce ai credenti di orientare le proprie scelte personali e i propri valori politici in base a testi sacri o a convinzioni teologiche. Ma certamente induce i credenti a prendere in considerazione il fatto che le forze storiche e le appartenenze culturali potrebbero aver contribuito a plasmare le loro più profonde convinzioni, in modi perfino contrari ai fondamenti della loro stessa fede.
Il potere destabilizzante della storia mi è diventato completamente chiaro l’estate scorsa quando è stato pubblicato il mio libro “Jesus and John Wayne: How White Evangelicals Corrupted a Faith and Fractured a Nation” (Gesù e John Wayne: come gli evangelici bianchi hanno corrotto una fede e spaccato una nazione). Il libro ricostruisce il modo in cui un ideale militante di virilità bianca cristiana abbia finito per pervadere la cultura popolare degli evangelici in America. Negli ultimi settantacinque anni, gli ideali eroici ispirati da mitici guerrieri, soldati e cowboy – molti dei quali sono stati interpretati sullo schermo da uomini come John Wayne o come il Mel Gibson del film “Braveheart” – hanno trasformato la fede stessa, sostituendo con un aggressivo grido di battaglia gli insegnamenti biblici più importanti, come quello di amare il prossimo e i propri nemici.
Nel giro di pochi giorni dopo l’uscita del mio libro, ho cominciato a ricevere dai lettori lettere e messaggi. E, a quasi un anno di distanza, la mia casella continua a riempirsi di numerosi messaggi ogni giorno, la gran parte dei quali sono scritti da evangelici. Mi avevano avvertito che avrei dovuto prepararmi a essere ferocemente trollata, ma questi non sono messaggi di odio. Quasi tutti i messaggi contengono, formulata in vario modo, la stessa frase: «Questa è la storia della mia vita. Grazie per avermi aiutato a capire».
Per spiegare questa affermazione, i lettori narrano la storia della loro vita con dettagli inequivocabili. Sono stati indottrinati nei valori familiari dell’evangelicismo dall’ascolto quotidiano del programma radiofonico di James Dobson “Focus on the Family”. Hanno fatto acquisti nelle librerie cristiane e hanno partecipato agli incontri dei Promise Keepers che sono una branca, riservata agli uomini, del movimento evangelico. Hanno fatto propri gli insegnamenti della “purity culture” e hanno strutturato il loro matrimonio intorno al principio dell’autorità maschile e della sottomissione femminile. Hanno orgogliosamente votato Ronald Reagan e hanno partecipato ai warrior boot camp organizzati nei fine settimana dalle loro chiese.
Eppure, nonostante la loro conoscenza di prima mano delle cose di cui ho scritto, molti lettori hanno manifestato profondo stupore dopo aver visto per la prima volta quali contorni avesse il mondo in cui avevano vissuto gran parte delle loro vite. Uno di loro lo ha spiegato così: «Mi ero imbattuto in moltissimi di questi alberi, ma non avevo mai visto la foresta». La frequenza con cui le persone che mi hanno scritto hanno espresso una sensazione di disorientamento e l’intensità emotiva delle loro reazioni mi hanno dato da pensare.
Anche se non sono i soli a preferire i resoconti abbelliti del loro passato, gli evangelici si sono aggrappati a queste narrazioni per una precisa ragione evangelizzatrice. Non molto tempo fa, sono stata intervista da un’emittente radiofonica cristiana. Entrambi i conduttori del programma sono stati rispettosi e piacevoli, ma uno dei due era chiaramente molto più diffidente dell’altro. Solo dopo, quando non eravamo più in onda, mi ha rivolto la domanda che lo turbava così tanto. Sapendo che io sono cristiana mi chiese con forza come pensavo che qualcuno avrebbe mai potuto diventare cristiano dopo aver letto il mio libro.
La domanda non mi sorprese. Quando avevo iniziato a occuparmi di quel progetto, avevo soppesato simili preoccupazioni. Ma la storia non è una campagna di marketing attraverso cui convertire le persone. E, cosa ancor più importante, proprio la mia ricerca nella storia dell’evangelicismo mi aveva mostrato chiaramente quali fossero i rischi derivanti dal coprire le verità sgradevoli per proteggere il “marchio” – o, per usare le parole degli stessi evangelici, “il ruolo di testimonianza della chiesa”.
Nella parte finale del mio libro, cito le parole dell’avvocato e attivista Rachael Denhollander, una donna che è stata vittima di abusi. In una potente testimonianza presentata al processo a Larry Nassar (l’ex medico della squadra americana di ginnastica che è stato condannato per aver commesso numerosi crimini sessuali ai danni di aspiranti atlete), Rachael Denhollander rimprovera all’imputato di cercare il perdono senza essersi pentito. La Denhollander, che è un’evangelica conservatrice, ha portato l’attenzione anche sugli abusi all’interno dell’evangelicismo, scontrandosi con quelli che cercavano di coprirli per proteggere il ruolo di testimonianza della chiesa. «Il vangelo di Gesù Cristo non ha bisogno della vostra protezione», ha detto la Denhollander in un’intervista; Gesù ha chiesto soltanto obbedienza, e questo significa dire la verità e perseguire la giustizia.
Quasi tutte le lettere che ricevo dai lettori evangelici contengono parole di gratitudine per le dolorose verità che sono giunti a vedere soltanto ora. Molti riconoscono anche la loro complicità con le storie che racconto. E comprendono che solo facendo i conti con il loro passato possono riallineare il loro ruolo di testimonianza con il perseguimento della verità e della giustizia che la loro fede prescrive.
©️ 2021 The New York Times Company and Kristin Kobes Du Mez. Distributed by The New York Times Licensing Group
Kristin Kobes Du Mez è nata a Sioux Center, in Iowa, e insegna storia alla Calvin University di Grand Rapids, in Michigan. È autrice del libro “Jesus and John Wayne: How White Evangelicals Corrupted a Faith and Fractured a Nation” (2020).
Questo articolo di Kristin Kobes Du Mez è stato pubblicato sul nuovo numero di Linkiesta Magazine, in edicola a Milano e a Roma e nelle migliori librerie indipendenti d’Italia.
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