Di seguito l’editoriale del direttore Christian Rocca sul nuovo numero di Linkiesta Magazine, in edicola da oggi a Milano e da giovedì anche a Roma e nelle migliori librerie indipendenti d’Italia.
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Il bel documentario di Apple Tv+ “1971, l’anno in cui la musica ha cambiato tutto” racconta l’epoca in cui la cultura hippie ha cominciato a perdere fascino costringendo i giovani di allora a mettersi alla ricerca di un nuovo ideale. La perdita dell’innocenza era cominciata qualche anno prima, nel 1969, con il grande concerto dei Rolling Stones ad Altamont in California, la Woodstock della West Coast insanguinata da scontri e da quattro morti, ma anche con l’assassinio di Sharon Tate orchestrato dalla setta di Charles Manson, due avvenimenti che assieme allo scioglimento dei Beatles hanno chiuso un’era e archiviato l’utopia di un mondo di pace e amore.
“1971” mostra come una parte consistente di quei giovani di cinquant’anni fa, dopo il decennio di illusioni sulla vita comunitaria e di infatuazioni per ogni tipo di spiritualità orientale, abbiano scoperto la fede, in particolare quella cristiana evangelica, perché in qualcosa comunque bisognava credere per dare un senso alla vita, non importa se l’amore libero o l’amore divino.
Le immagini del documentario sono molto significative perché i ragazzi che pregano estasiati in gruppo sembrano gli stessi ragazzi su di giri dei concerti e dei raduni hippie, con gli stessi capelli lunghi, gli stessi vestiti e la stessa passione irrisolta sublimata inneggiando a Gesù anziché a un santone o a una rockstar.
Molti altri, invece, sono rimasti disorientati.
A dicembre del 1970 è uscita “God” di John Lennon, una canzone lenta e maestosa contenuta nel suo primo album solista. «Il sogno è finito», ha commentato l’ex Beatle a proposito del testo del brano. «Non sto parlando solo dei Beatles, sto parlando dell’intera generazione. È finita e dobbiamo, devo personalmente, tornare alla realtà». La canzone è un elenco di cose in cui Lennon e la sua generazione non credono più:
I don’t believe in magic
I don’t believe in I Ching
I don’t believe in the Bible
I don’t believe in tarot
I don’t believe in Hitler
I don’t believe in Jesus
I don’t believe in Kennedy
I don’t believe in Buddha
I don’t believe in mantra
I don’t believe in Gita
I don’t believe in yoga
I don’t believe in kings
I don’t believe in Elvis
I don’t believe in Zimmerman
I don’t believe in Beatles
I just believe in me…
E noi, invece, in che cosa crediamo oggi? In questo numero di Linkiesta Magazine, ce lo chiediamo assieme alle firme del progetto The Big Ideas del New York Times.
Nelle pagine successive leggerete i saggi e gli interventi dei nostri editorialisti, ma prima è necessaria una breve storia per ricordare come siamo arrivati al 2021.
Abbiamo attraversato gli Anni Zero, quelli post 11 settembre 2001, attenti al ritorno della storia e spaventati dallo scontro di civiltà, con la religione che da Ratisbona a Teheran, passando per Najaf e Qom, ma con ricadute sulla quotidianità di New York, di Londra e di Madrid, nei locali di Parigi e di Mumbai, sulle strade di Baghdad e di Damasco, oltre che di Gerusalemme e di Tel Aviv, ha guidato il discorso pubblico, sociale e geopolitico del nostro tempo, con le stragi e le violenze, con gli interventi armati e le persecuzioni, ma anche con le pagliacciate dei politici muniti di rosario per darsi un tono grottesco da difensori delle radici cristiane e con gli islamisti svelti a soffiare sul fuoco religioso per alimentare illusioni di dominio terreno.
Il leader di questo nuovo mondo è diventato Vladimir Putin, non solo per longevità al potere, ma per essersi abilmente posizionato al crocevia tra Occidente e Oriente, tra democrazia e dittatura, tra garante dell’ordine e fomentatore del caos, tra domatore degli estremismi e alimentatore delle guerre civili (e sulla stessa scia c’è Recep Tayyip Erdoğan).
Putin è stato anche il traghettatore dell’epoca dello scontro di civiltà verso quella più recente del populismo e del sovranismo, grazie all’uso militare e industriale delle fake news costruite e diffuse per indebolire i competitor globali, per fiaccare la democrazia e per sopprimere i dissidenti interni.
La sconfitta di Donald Trump in America e il conseguente sfaldamento dell’area populista in giro per il mondo – compresa l’Italia di Giuseppe Conte, molto a suo agio sia con Putin sia con Trump – hanno avviato un’altra stagione ancora in fieri, e questo nonostante l’ondata lunga del virus abbia consentito al Cremlino e ai suoi sodali di continuare a contagiare il dibattito pubblico con la post verità sui vaccini pericolosi e sull’Europa cinica e cattiva.
E ora siamo qui, in un mondo che vuole risvegliarsi, dotato finalmente di leader sensati come Joe Biden e Mario Draghi e provvisto di robusta fiducia nella ricostruzione e nella capacità di reinventarsi.
Il virus ha rimesso a posto le cose, malgrado le devastazioni familiari, sociali ed economiche che ha creato, ma almeno sui vaccini e sull’Europa per una volta la forza della realtà ha prevalso sul miraggio dell’impostura, a parte le sacche di imbecillità fisiologica.
Ma, attenzione, adesso l’errore da non commettere è quello di credere nel mito della razionalità dell’elettore contemporaneo.
Su Linkiesta ripetiamo sempre che l’elettore medio è tutt’altro che razionale, compie scelte incoerenti e spesso cerca con ferocia inspiegabile il modo più rapido di andare a sbattere contro il muro.
È lo stile paranoico della politica contemporanea, sintetizzato da Edoardo Bennato, con «un giorno credi di essere giusto e di essere un grande uomo, in un altro ti svegli e devi cominciare da zero», con la stessa precisione con cui l’ha formulato lo storico americano Richard Hofstadter, il cui libretto del 1963, intitolato «Lo stile paranoide della politica americana», è stato appena ripubblicato da Adelphi esattamente per fornire una lettura puntuale della nostra epoca.