Realtà e menzogna Come possiamo scartare le cattive idee se non possiamo discuterle né confutarle?

Sono nato in Unione Sovietica: per questo, quando parlo di disinformazione, so bene che cosa sto dicendo, spiega il campione di scacchi. Da Linkiesta Magazine in edicola, in libreria o su Linkiesta Store

A Columbus, in Ohio, un uomo grida in un megafono durante una manifestazione nazionale indetta da gruppi di estrema destra in sostegno alle accuse di frode elettorale fatte da Donald Trump in seguito alla sua sconfitta nelle elezioni presidenziali. ©️Stephen Zenner/Agence France-Presse — Getty Images

Si dice che le persone cresciute oltre la vecchia Cortina di ferro abbiano una tendenza alla paranoia. Io sono una di quelle persone e posso soltanto dire che avevamo molti motivi per cui essere paranoici.

Crescendo a Baku, in quello che oggi è l’Azerbaigian, ho osservato come l’onnipotente Stato sovietico ci mentisse spudoratamente, ogni mattina sui quotidiani e ogni sera al telegiornale. Quando ho iniziato la mia scalata all’Olimpo degli scacchi, mi sono reso conto di come ogni funzionario sportivo, ogni fan e ogni persona che mi stava vicino fosse un potenziale informatore. Se veniva percepita una disobbedienza, ciò poteva comportare la perdita del tuo lavoro, della tua libertà o della tua vita.

Quando negli anni Ottanta la rovinosa economia comunista rallentò e i nostri standard di vita rimasero ancora più indietro rispetto a quelli del mondo libero, la repressione interna e la propaganda non fecero che aumentare. Il contrasto tra quello che dicevano le autorità e la realtà che osservavamo divenne assurdo. «Non ci sono notizie nella Verità e non c’è verità nelle Notizie» diceva una battuta sui due quotidiani sovietici più importanti, la Pravda (“Verità”) e la Izvestija (“Notizie”).

È facile collegare uno Stato onnipotente – sia esso l’Unione Sovietica, l’attuale Cina governata dal Partito comunista o il Grande Fratello di George Orwell – alla divulgazione di narrazioni false con l’obiettivo del controllo sociale. Le dittature hanno il movente e i mezzi per distorcere la realtà in qualunque forma che sia utile ai loro obiettivi. E hanno una comprovata esperienza nel farlo.

Alcune persone che vivono sotto simili regimi credono davvero alla versione ufficiale della storia, nonostante quello che i loro stessi occhi possano suggerire. Altri simulano di crederci per paura. E poi ci sono quelli che – credano o no alla storia ufficiale non importa – sono ambiziosi, non hanno intenzione di limitarsi a sopravvivere e vogliono invece progredire e prosperare. In contesti di questo tipo, dimostrare quanto volenterosamente si creda alle narrazioni false può aiutare a fare carriera, soprattutto se ci si dà da fare accusando gli altri per mostrare la propria purezza e la propria osservanza.

Nella scrittura di “1984” Orwell fu ispirato, se questa è la parola giusta, da un romanzo intitolato “Noi”, il ritratto futuristico di uno Stato totalitario scritto dal russo Evgenij Zamjatin. La prima pubblicazione di “Noi”, che in Unione Sovietica era stato proibito, avvenne in traduzione inglese nel 1924. In questo romanzo Zamjatin individua con mira precisa quali siano i veri obiettivi degli zeloti dell’ideologia e gli infiniti pretesti che essi adducono per centralizzare il controllo di ogni aspetto della società.

«L’unico modo per liberare l’uomo dalle sue azioni criminali è liberarlo dalla libertà», dice, compiaciuto dalla sua stessa logica matematica, D-503, il protagonista di “Noi” (che è un leale, ma via via sempre più combattuto, costruttore di navicelle spaziali). La stessa logica può essere agevolmente applicata anche al parlare: se non puoi parlare, non puoi neanche diffondere pensieri proibiti. In un mondo di questo tipo l’eretico va bruciato, imprigionato o lobotomizzato. O, quanto meno, gli va applicato un de-platforming.

Oggi nei Paesi occidentali non c’è il monopolio statale sulla disinformazione ma le menzogne si diffondono da ogni angolo della società. Grazie al potere di internet chiunque – un politico eletto, un uomo d’affari o un privato cittadino – può fare il ministro della Propaganda rimanendo comodamente a casa. I social media possono rapidamente alimentare scintille vaganti trasformandole in incendi incontrollabili. Tribù digitali di teorici del complotto possono influenzare i partiti politici o addirittura fondersi con essi – e sono spesso aiutate da elementi appartenenti a Paesi stranieri ostili a cui fanno comodo i danni che simili gruppi possono infliggere.

È ormai ben accertato che le fake news e le più scandalose bugie si diffondono più rapidamente delle noiose verità. Chiunque trae compiacimento dal pensare di essere detentore di segreti che gli altri non conoscono. E, in questa lotta, i fatti finiscono per soccombere: ci sono milioni di modi per mentire, per esagerare o per omettere, ma continua a esserci soltanto una sola, solitaria verità.

La democratizzazione della disinformazione comporta ovviamente meno pericoli rispetto al controllo delle informazioni operato da una dittatura, ma ha comunque delle conseguenze reali. Oggi le narrazioni false hanno spesso grande successo presso comunità che sono frammentate e difficili da raggiungere attraverso strumenti convenzionali. Il sentimento di appartenenza a un gruppo di questo tipo è un potente sostituto della fedeltà a un partito politico ed è molto meno prevedibile quanto ai suoi esiti.

Io ho esperienza personale di un potere autoritario che non ha rispetto per la libertà e per la vita umana. Il mio stesso sito di notizie, Kasparov.ru, in Russia è stato bloccato per anni. E ho seguito da vicino le sorti delle migliaia di miei connazionali che negli ultimi mesi sono stati picchiati o imprigionati per aver pacificamente protestato contro il regime di Vladimir Putin. Sono stato testimone di come il dissenso possa essere facilmente criminalizzato e per questo sono sempre pronto a far notare l’assurdità delle denunce di censura da parte di opinionisti o di politici americani ogni volta che qualcuno perde un contratto editoriale o che un account Twitter viene oscurato per la condivisione di qualche punto di vista che incita all’odio.

Sono sempre le mie esperienze personali, tuttavia, a rendermi così preoccupato per il fenomeno che, in un modo più dissimulato, minaccia il libero corso delle idee nelle società occidentali: l’affermarsi di un punto di vista maggioritario che non può essere messo in discussione e che è capace di trasformare persone comuni in testimoni silenziosi, in delatori e in ambiziosi zeloti uguali a quelli in mezzo ai quali sono cresciuto in Unione Sovietica.

Una simile ortodossia intellettuale non ha dietro di sé l’autorità di uno Stato, ma le piattaforme online tipo Facebook o Twitter possono essere altrettanto efficaci nel costringere le persone ad aderire alla nuova “linea di partito”. Pensate al dibattito intorno all’origine del Covid-19.

All’inizio della pandemia, alcuni esperti – tra cui Luc Montagnier, un virologo vincitore del Premio Nobel – avanzarono l’ipotesi secondo cui la diffusione del virus avrebbe avuto origine da un’accidentale falla nella sicurezza di un laboratorio cinese. Questa teoria è stata però ben presto avviluppata in un dibattito sempre più polarizzato. Nel tentativo di rendere più affilata la sua retorica contro la Cina il presidente americano, Donald Trump, e suoi sostenitori promossero apertamente l’ipotesi di una falla in un laboratorio cinese, mentre, di riflesso, chi era critico della sua Amministrazione la rifiutò come narrazione falsa. I titani della Silicon Valley hanno silenziosamente rimosso gli articoli che davano risonanza a questa teoria mentre i media mainstream la etichettavano come disinformazione.

Eppure, in quei mesi, erano ancora disponibili poche informazioni attraverso cui poter confermare o confutare la validità di quegli argomenti. Il rifiuto di quella teoria non è stato quindi il risultato di una scrupolosa indagine scientifica: è stato determinato da ragioni politiche ed è stato indotto dalle voci dominanti che danno forma al dibattito nello spazio pubblico. (Negli ultimi mesi, con Trump ormai fuori dalla scena, l’Organizzazione mondiale della sanità e numerosi scienziati hanno affermato che l’idea di una falla di laboratorio richiede ulteriori indagini).

Nel nostro mondo libero la disobbedienza all’ortodossia intellettuale non comporta le gravi conseguenze che produce sotto i regimi totalitari. Nessuno verrà spedito in un gulag per essere andato fuori linea. Ma non possiamo combattere con successo la disinformazione se non abbiamo la possibilità di pensare e parlare senza timore. Come possiamo scartare le idee cattive se non possiamo discuterle e confutarle? Sembra proprio un tentativo di liberarci dalle azioni criminali liberandoci dalla libertà.

Come scriveva Zamjatin, «ci sono idee di argilla e idee plasmate nell’oro o nel nostro vetro pregiato. Per determinare di quale materiale sia fatta un’idea, basta lasciarci cadere sopra una goccia di un potente acido».

I nostri acidi metaforici sono l’istruzione, il libero scambio delle idee e la libertà di pensare, parlare, sbagliare e imparare senza timore. Proteggere questi principi non significa tollerare l’intolleranza o promuovere l’odio, ma richiede coraggio – il coraggio di ammettere il dubbio, di sfidare gli altri e di esserne sfidati.

© 2021 The New York Times Company and Garry Kasparov. Distributed by The New York Times Licensing Group

Garry Kasparov, nato a Baku in Azerbaigian (allora Urss) nel 1963, è stato uno dei più celebri campioni del mondo di scacchi. Ha fondato la Renew Democracy Initiative, un’organizzazione che promuove la democrazia liberale. Vive a New York.

Questo articolo di Garry Kasparov è stato pubblicato sul nuovo numero di Linkiesta Magazine, in edicola a Milano e a Roma e nelle migliori librerie indipendenti d’Italia.
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