Identità sulla cartaPer portare alla luce tutti gli strati del proprio “io” si può impiegare una vita intera

Sono stata “d’origine spagnola”, ispanica, latina, latin@, latinx e ora, a settantun anni, cerco ancora di capire chi sono, racconta la scrittrice newyorkese, la cui famiglia è arrivata negli Stati Uniti dalla Repubblica Dominicana. Da Linkiesta Magazine in edicola, in libreria o su Linkiesta Store

Un’opera dell’artista francese JR (AP Photo/Francois Mori)

Tra le cose successe quando la mia famiglia è arrivata negli Stati Uniti negli anni Sessanta, una delle più disorientanti è stata individuare un termine con cui definirci. Sembrava che nessuno sapesse dove si trovava la Repubblica Dominicana.

In quell’epoca non c’erano molti dominicani negli Stati Uniti – la dittatura rendeva difficile l’emigrazione. Quindi, quando ci veniva chiesto da dove venissimo, non potevamo rispondere semplicemente: «Siamo dominicani, sai, come Sammy Sosa o Alex Rodriguez». I nostri compagni spesso scambiavano il mio Paese per Dominica, che è un’altra nazione caraibica. «Oh, che fortunella! Ci siamo andati per lo spring break!». Quanto meno Dominica è un’isola che sta negli stessi paraggi della Repubblica Dominicana.

Le nazionalità-con-il-trattino (dominican-americani, sino-americani e perfino afro-americani) non erano ancora state inventate. Quando dovevamo mettere una crocetta, nessuna delle poche scelte proposte (“negro”, “eskimo”, eccetera) ci includeva. Eravamo, con espressione vaga, “di origine spagnola”, che era pur sempre una definizione migliore delle ben dei più sgradevoli offese da campo giochi: “spic”, “wetback”, “greaser”.

Io sono nata a New York, ma i miei genitori sono tornati nella loro madrepatria quando avevo un mese. Sono poi immigrati di nuovo negli Stati Uniti quando avevo dieci anni. Ero americana, ma non ero americana. Ero un’immigrata, ma in realtà non lo ero. Fin dall’inizio, la mia identità non era facile da sbrogliare. Non sapevo in che modo esprimermi a proposito di chi io fossi, ma sapevo che cosa mi creava disagio. I due modelli “di origine spagnola” nella cultura popolare erano Miss Chiquita Banana e Ricky Ricardo – la prima era un’incredibile schianto di latina che metteva in mostra le sue mercanzie, sia le sue banane sia le sue curve, il secondo era uno zimbello che provocava un’esplosione di risate registrate ogni volta che apriva bocca. (Non c’è bisogno di dire che non amo “I Love Lucy”). L’idea che io potessi essere la responsabile di tutte le sfumature e di tutte le complessità della mia identità non mi era mai sovvenuta. L’unica cosa che conoscevo erano degli “o l’uno o l’altro”.

Non c’era nessun vocabolario che potesse illuminare i margini dove i miei anomali “io” erano accampati, in attesa che la frontiera si aprisse e lasciasse entrare qualcun altro di quei miei “io”. «Sii sincero con te stesso», leggevamo nelle lezioni su Shakespeare, un mantra per i miei amici hippy. «Ma a quale “me stessa”?», mi domandavo. Ero vasta: contenevo moltitudini, come il señor Whitman. Come avrei potuto dirlo? L’inglese era una lingua con la quale ero in fase di negoziazione e dovevo ancora trovare il termine per indicare me stessa che potessi sentire come perfettamente giusto.

Un termine come “donna”, che descrive un aspetto di me stessa, non accoglie le differenziazioni, le circostanze e le venature che derivano dall’essere la versione latina di una donna. “Intersezionalità” era una parola che non usava nessuno, anche se descrive esattamente il contesto in cui vivevo. Solo quando ho iniziato a scrivere ho trovato lo spazio per esplorare, precisare e definire con tutte le sfumature i numerosi “io” del mio “io”, le storie della mia storia.

Negli anni Ottanta, nello stesso modo in cui Colombo aveva “scoperto” l’America, gli editor scoprirono improvvisamente gli scrittori etnici, benché molti di noi scrivessero già da molti decenni e le nostre opere fossero state pubblicate da riviste locali e piccole case editrici. Ma, insieme con questa nostra green card letteraria, arrivarono anche nuove sfide per la nostra identità e nuovi presupposti con cui dovevamo fare i conti. I miei personaggi avrebbero dovuto essere sempre latinx? Le mie trame avrebbero sempre dovuto svolgersi intorno a qualche tema latinx? Per quale motivo la maggior parte dei libri che mi venivano mandati affinché io scrivessi un blurb erano di autori latinx o comunque di autori etnici («Ti piacerà moltissimo!», promettevano gli editor)? Non è che io non volessi affermare la mia etnicità, è che non volevo accettare che mi fosse imposto da altri un “copione” limitante e già scritto.

E, soprattutto, rimaneva irrisolto il dubbio su come avremmo dovuto definire noi stessi. Il termine “ispanici”, che aveva sostituito l’espressione “di origine spagnola”, era poi stato stigmatizzato in quanto termine coloniale e da censimento, un termine che ignorava gli elementi indigeni e africani dei nostri “io”. Molti di noi, che non si sentivano a proprio agio con queste cancellature, si spostarono verso l’uso di “latino/a” (sebbene questo termine ricordasse, quanto a colonizzazione, nientemeno che l’Impero romano). Poi si diffuse “latin@”, una descrizione gender-neutral più inclusiva. E poi, più di recente, è stata la volta di “latinx”. Ciascuno di questi termini è uno sforzo per definire noi stessi e per affermare il controllo sui nostri percorsi. E così, per tentativi, commettendo molti errori e facendo también un sacco di gaffe, ho cercato con tutte le mie forze di articolare quella che volevo che fosse un’identità vissuta e non un’identità recitata o assegnata o cooptata.

Di recente, con un mio collega scrittore etnico, abbiamo fatto delle riflessioni sul fatto di essere cresciuti in un mondo in cui non c’era ancora il multiculturalismo. «Ed eppure stiamo ancora scrivendo!», ha detto lui, con il vanto di chi non è stato sconfitto. È stato un grande sollievo potersi sfogare con qualcuno che aveva provato il mio stesso disorientamento e aveva fatto la mia stessa fatica dovendo passare attraverso il fuoco e poi attraverso un fuoco più grande ancora.

Ho continuato a pensare a che cosa significhi essere sopravvissuta a tutti questi cambiamenti nello Zeitgeist e in me stessa. Quale nucleo fondamentale del mio essere è riemerso dalle fiamme del rifiuto, della mancata considerazione e della cancellazione? Mentre avanzo verso la vecchiaia, il trionfo che più d’ogni altro mi piacerebbe celebrare è l’essere sopravvissuta con quel nucleo fondamentale intatto.

Uno degli aspetti gratificanti dell’invecchiare è il sentir dire da latinas più giovani che i miei libri, e altri libri di colleghe scrittrici latinas mie coetanee, le hanno aiutate a capire le loro vite in tutta la loro complessità e varietà. Tutti noi abbiamo avuto bisogno di vocabolari e di storie e di testimonianze e nella mia scrittura e nella mia vita editoriale, che si sono estese per più di un cinquantennio, ho visto queste necessità essere sempre più soddisfatte. Le frontiere si sono aperte, almeno sulla carta, per molti di noi.

Ma ora che ho compiuto settantun anni mi trovo ad avere una relazione altalenante con l’identità, dopo aver combattuto una vita intera per darle forma e per rivendicarla. Sarà l’età avanzata – o sarà il risultato di anni di pratiche di meditazione, focalizzate sul lasciare andare l’ego e sull’accogliere il vuoto – ma ora sono più interessata a fare una muta dell’“io”. Per tornare all’“io” più profondo, alla radice primaria.

Sono sempre più attratta dall’estetica degli haiku giapponesi, in cui tutto ciò che è estraneo e inessenziale viene rimosso e rimane soltanto ciò che è vivo e carico. Sono incantata dai romanzi brevi e poetici che si collocano ai margini, negli spazi liminali di questo genere letterario. Bramo ardentemente delle compagne letterarie, dei personaggi più anziani, specialmente delle latinas più anziane, ritratte con accuratezza e non dipinte sbrigativamente grazie a qualche cliché – come la saggia abuelita, la señora, un tempo bellissima, di un patriarca sul viale del tramonto, la viuda alegre con-il-cappello-rosso-e-lo-scialle-viola, la gruñona bisbetica e tutti gli abitanti dietetici della letteratura per vecchie signore. Come fare un resoconto preciso di questo tratto del percorso, degli “io” che abbiamo scartato, di che cosa significhi l’identità a questo stadio avanzato della vita e di come ci si senta rispetto a questa identità?

Le battaglie è ancora necessario combatterle. E ancora necessario vivere tutto sulla propria pelle, uno strato dopo l’altro. Non puoi fare la muta e liberarti di un’identità se non hai mai avuto la possibilità di rivendicarla e di viverla in prima persona. Come scrive il gentile e brillante Ocean Vuong, «certe volte vieni cancellato prima che ti venga data la possibilità di affermare chi tu sia». Devi tornare indietro ad aiutare quelli che non riescono a tirarsene fuori, come ci ricorda la mia vecchia compañera Sandra Cisneros alla fine de “La casa in Mango Street”. Nessuno può essere esonerato dall’azione trasformatrice dell’amore.

In una delle sue ultime poesie, “The Layers” (“Gli strati”), Stanley Kunitz scrive delle molte vite e dei molti strati attraverso cui è passato e che si è lasciato indietro. Ed eppure «qualche principio dell’essere / mi rimane, dal quale mi sforzo / di non allontanarmi».

Far parte di una “minoranza” etnica ha significato vivere nelle molte definizioni e attraverso i molti strati che un nuovo linguaggio e una nuova cultura hanno fornito. Come possiamo comprendere un “io” profondo che è riuscito a mantenersi intatto dopo aver subito questi assalti al pieno dispiegamento della sua diversità? (Alla fine, in età avanzata, ho capito la pungente affermazione di Toni Morrison, quando disse che lei non aveva intenzione di scrivere per uno sguardo bianco e che la prima cosa perché questo fosse possibile era non vivere nell’accecante luce dello sguardo altrui).

Quasi alla fine di “The Layers”, una voce invita il vecchio poeta, sopraffatto dai rottami che una vita lascia inevitabilmente dietro di sé, a «vivere negli strati, / non tra le macerie». Perché indugiare nelle lamentele, tra le macerie dell’amarezza, le distorsioni create dagli altri, i confini limitanti di “io” più piccoli? Io, invece, voglio vivere con la consapevolezza e l’apprezzamento di tutti gli strati. E questo implica accettare la mia stessa diversità, perdonare me stessa, guardarmi in prospettiva con umorismo, generosità e tolleranza ed estendere tutti questi sentimenti anche agli altri e alla loro lotta, che è stata e continua a essere anche la mia stessa lotta.

Questo potrebbe essere il mio principio guida fondamentale, in cui avere fiducia: non un indice o un credo, ma un modo di stare al mondo – una vita vissuta in gentilezza e tra persone affini, in profondo amore.

Nel frattempo, c’è ancora del lavoro da fare. Come scrive Kunitz nell’ultimo verso della sua poesia: «Non ho ancora finito con i miei cambiamenti». Il territorio dell’identità in età avanzata deve essere esplorato e articolato. Come le nostre prime storie hanno aiutato le latinas più giovani e altri lettori a comprendersi meglio, delle altre storie, scritte adesso che abbiamo qualche anno in più, potrebbero essere di aiuto per loro in futuro. Ma che cosa significa essere una persona di una certa età, non solo nelle ininterrotte lotte per le nostre comunità di colore ma anche nella gigantesca lotta per i diritti civili che tutti noi dobbiamo affrontare, quella per salvare il pianeta? A mano a mano che divento più vecchia, potrò presentarmi in prima linea soltanto con le frasi che scrivo.

Questo potrebbe essere un epilogo soddisfacente: scomparire, come Walt Whitman, sotto la suole degli stivali – essere il terreno su cui altri possano stare saldi.

©️ 2021 The New York Times Company and Julia Alvarez. Distributed by The New York Times Licensing Group

Julia Alvarez, nata a New York nel 1950, è una scrittrice e poetessa di origine dominicana. Nel 2014 ha ricevuto una National Medal of Arts. Alcuni suoi libri, tra cui “Il tempo delle farfalle (Giunti, 2019), sono stati tradotti in italiano. Il suo romanzo più recente è “Afterlife” (2020).

Questo articolo di Julia Alvarez è stato pubblicato sul nuovo numero di Linkiesta Magazine, in edicola a Milano e a Roma e nelle migliori librerie indipendenti d’Italia.
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