Mio Dio, riusciamo a litigare pure quando vinciamo l’invincibile… stiamo calmi: lo sport è lo sport, la politica è la politica, la letteratura è la letteratura, eccetera eccetera. Che banalità. Che noia.
Dunque, in una domenica d’agosto succede che l’Italia becca due medaglie d’oro olimpiche in altrettante mitiche specialità di atletica leggera: i 100 metri (mai un italiano in finale, figuriamoci sul podio, figuriamoci d’oro) con Marcell Jacobs, nato a El Paso, negli Stati Uniti, città conosciuta solo dagli italiani amanti del western classico perché ci passavano i banditi che scappavano verso il Messico.
Jacobs fino a ieri mattina era noto a un numero ristretto di appassionati (bravi i giornalisti di Undici che gli avevano dedicato la copertina), nel pomeriggio per tutti era uno di famiglia, e così anche l’altro azzurro, Gianmarco Tamberi, che dieci minuti prima di Jacobs aveva vinto l’oro “a mezzi” con il qatariota Barshim.
Come succede sempre, nel giro di un quarto d’ora gli italiani sono diventati tutti super-appassionati di atletica, “la regina” degli sport, con la mistica dei tanti sacrifici e via con tutta la retorica che in questi casi ci sta. Passano altri due minuti – siamo ancora tutti increduli, siamo i nuovi Usain Bolt, i giamaicani siamo noi – e sulla Rete (e dove sennò) appaiono le prime scemenze, di segno uguale e contrario: «È l’Italia di Draghi», «L’Italia è cambiata» (questi i governativi); oppure, «L’avete già detto che è merito di Draghi e di Renzi?»,«Questo è il culo di Draghi» (questi sono gli antigovernativi). E così via twittando, garruli o stizziti.
Qui vorremmo sommessamente dire che di questi ultimi importa poco, obnubilati come sono dalla vedovanza di Giuseppe Conte e dall’astio per l’attuale premier (e ça va sans dire per Matteo Renzi, che non ci sta mai male) e, ancor più sommessamente, osservare come la politicizzazione di uno che salta 2 metri e 37 centimetri e un altro che fa 100 metri in 9 secondi e 80 centesimi non è fuori luogo: è patetica.
Mario Draghi non c’entrava nulla con Donnarumma e Jorginho e nulla c’entra con Jacobs e Tamberi. Non sapremmo dire, non siamo esperti del ramo, se c’entri qualcosa il presidente del Coni, Giovanni Malagò, o quello della Federazione di atletica, Stefano Mei, forse un po’ sì. Ma non è che se a palazzo Chigi ci fosse stato un altro premier Jacobs avrebbe corso più piano. Quando Pietro Mennea vinse a Mosca i 200 metri nessuno si azzardò a dire che fosse merito del secondo governo Cossiga (Dc, Psi, Pri: come mai non c’erano i socialdemocratici?). Qualcuno scomoderà gli astri, il “clima”, magari l’unità nazionale vista come l’abracadabra del mito della pascoliana Italia proletaria che si è mossa, d’altronde persino la vittoria dei Måneskin era stata arruolata al carro governante: ma vi pare il caso? Ma che cosa c’entra?
E in questa luce tanto più penosi sono i disfattisti in servizio permanente effettivo come quelli del Fatto Quotidiano o il vulcanico Mario Adinolfi, quelli che fa schifo tutto per colpa di Draghi, Renzi, Figliuolo e Cartabia, e pure ‘ste Olimpiadi sono un fallimento – avevano scritto prima della domenica d’oro. «Dovevamo stupire il mondo e invece siamo sorpresi per le cocenti sconfitte», aveva sentenziato uno sfortunato Leonardo Coen sul giornale di Travaglio, mentre Marione, integralista al pari di Marco, twittava di mattina presto: «Malagò è bravo a fare pubbliche relazioni, specie coi giornalisti che non stanno scrivendo che la spedizione olimpica è una débâcle: 16esimi nel medagliere, un disastro».
Esempi della débâcle di un giornalismo che non si era accorta di avere due fuoriclasse in casa. Dunque la paventata Caporetto si è trasformata in un Piave, va bene così. E insomma, care italiane e cari italiani, viva l’atletica, viva le Olimpiadi, viva l’Italia. E fermatevi qui, lasciate perdere Draghi che fate più bella figura.