In un discorso della primavera del 2001 – si era a poche settimane dalle elezioni politiche – Giuliano Amato con la sua abilità dialettica cercò di spiegare, addolcendolo, il casino combinato dal centrosinistra in quella legislatura. «Ci siamo passati il testimone in questa staffetta ed ora Francesco vai a vincere!», disse l’allora presidente del Consiglio raccogliendo un meritato applauso. Il problema era che la “staffetta” aveva funzionato malissimo: anzi, non doveva proprio esserci.
Ricordate? 1997: Romano Prodi sostituito da Massimo D’Alema con l’aiuto di Cossiga, poi il medesimo D’Alema perdente alle Regionali che se ne va e viene sostituito da Amato, sostituito come candidato premier, con un certo suo disappunto, da Francesco Rutelli. Risultato: un disastro politico, un capolavoro autodistruttivo, e 5 anni di governo Berlusconi come punizione. Al quale, più furbo di tutti, non è mai passata per l’anticamera del cervello di consegnare il testimone ad altri, se non costretto dalla Storia, vedi il fallimento del suo governo e l’arrivo a palazzo Chigi del loden di Mario Monti.
Se quella del centrosinistra 1996-2001 fu una scombiccherata risultante di evidenti conflitti di potere interni, ce ne fu un’altra – questa programmata ma altrettanto fallimentare – la famosa staffetta Craxi-De Mita negli anni Ottanta. Il leader democristiano, nel 1983, dopo l’unica vera batosta elettorale della storia della Democrazia cristiana, si accordò in gran segreto con Bettino Craxi: a palazzo Chigi metà legislatura ci vai tu e l’altra metà io (o comunque un democristiano).
Il patto della staffetta venne stipulato a voce (nulla di scritto, per carità) e in gran segreto, in un convento sull’Appia antica, praticamente senza testimoni se si eccettua l’allora potente democristiano della stessa corrente di De Mita Riccardo Misasi. Craxi divenne premier e ci prese gran gusto. Non mollava la poltrona. D’altronde erano anni in cui le cose giravano bene. De Mita si fidava: «Staranno ai patti? Io vi dico di sì», urlò in un comizio ad Avellino. Ma niente: per farla breve Craxi lo fregò e nel febbraio ‘87 andò a Mixer, il programma di Giovanni Minoli e sbuffò: «La staffetta non esiste». E dopo, ai giornalisti che chiedevano lumi: «Ma avete sentito, no? La staffetta è liquidata». Poi ci si chiede perché De Mita abbia detestato Craxi così tanto. Fine della storia: di lì a pochi anni Dc e Psi vennero liquidati da Di Pietro.
In anni più ravvicinati si è parlato impropriamente di staffetta Letta-Renzi, che com’è noto a momenti non riuscivano a passarsi una campanella, figuriamoci un testimone. Letta non volle guardare negli occhi colui che a suo dire l’aveva tradito, fu uno scontro violento, una ferita che ancora non si è rimarginata. «Stai sereno» è diventato proverbiale per dire che sta partendo lo stiletto, più che il testimone. E non fu certo una staffetta neppure il passaggio da Matteo Renzi a Paolo Gentiloni, già suo ministro degli Esteri, un colpo che il primo si inferse da solo, e giustamente, dopo la botta referendaria del 2016.
Poi si è anche favoleggiato di una staffetta Salvini-Di Maio, che nel 2018 vinsero le politiche nel segno del trionfo del populismo sfruttando una poderosa risacca antirenziana. Ovviamente i due finirono per farsi la guerra ancor prima che venisse dichiarata ed entrambi finirono a reggere la scala del più marpione di tutti, quel Giuseppe Conte che ha diretto due esecutivi di colore diverso senza battere ciglio, sedendosi sulle poltrone di vicepresidenti del Consiglio.
No, la staffetta non è nelle corde italiche. Almeno quelle politiche. Mai fidarsi degli amici. Una regola opposta a quella che vige nello sport, il contrario dello spettacolo dei quattro azzurri della staffetta della 4×100 ieri a Tokyo, lì il testimone è filato liscio come gli anelli tra le mani dei fidanzati.