Dark side of greenQuanto costa al pianeta l’industria delle terre rare

Il gruppo di 17 elementi della famiglia dei metalli, oggi impiegati in molti oggetti di uso quotidiano nonché nelle tecnologie chiave della transizione ecologica, presenta un conto salato non solo per la difficile estrazione e l’inquinamento che causa, ma anche per la scarsa riciclabilità

Ossidi di terre rare (Peggy Greb, Us Department of Agriculture)

Le troviamo nei dispositivi tecnologici che usiamo quotidianamente, dagli schermi e dischi rigidi dei nostri device fino ai sistemi Gps, ma anche nelle lampadine a risparmio energetico e nei dvd. Così come nelle marmitte catalitiche, negli occhiali per la visione notturna, nelle armi a guida di precisione, negli altoparlanti e, soprattutto, nei magneti permanenti.

«L’importanza delle terre rare (Rare Earth Elements, Ree) diventa strategica soprattutto quando ci riferiamo a quelle magnetiche: ovvero il neodimio, il praseodimio, il terbio e il disprosio», ha spiegato a Greenkiesta Giovanni Brussato, ingegnere minerario e autore del libro “Energia verde? Prepariamoci a scavare”.

L’utilizzo dei magneti permanenti al NdFeB è infatti trasversale a tutte le tecnologie green: dalle turbine eoliche, soprattutto quelle progettate per l’utilizzo off-shore, ai motori delle auto elettriche fino alla robotica e al volo autonomo mediante i droni.

Più diffuse di quanto si pensi

«A dispetto del loro nome, questi minerali non sono così rari», ha chiarito Brussato. «Semplicemente, non essendo metalli puri, si trovano in basse concentrazioni nelle rocce. «La loro ipotetica scarsità» – ha proseguito l’esperto – «è dovuta al basso tenore delle loro mineralizzazioni che spesso rende non economico il loro sfruttamento». Poco economico e, come vedremo, poco sostenibile a livello ambientale.

Insostituibili in molti ambiti strategici, e per questo soprannominate “vitamine industriali”, le terre rare sono un gruppo di 17 elementi che fanno parte della famiglia dei metalli: il loro nome è stato termine coniato dall’Unione Internazionale di chimica pura e applicata (Iupac).

La produzione annua globale di questi minerali è di poco superiore alle 150mila tonnellate, per un giro di affari di alcuni miliardi di dollari. Ad oggi, la Cina controlla oltre il 90% della catena produttiva dei magneti permanenti: nel 2020 ne ha esportate 40.835 tonnellate, con un aumento dello 0,24% su base annua, «ed ogni anno rilascia più brevetti di Ree rispetto al resto del mondo messo insieme», ha chiarito Brussato. 

Il fatto di detenere uno dei due brevetti originali per produrre magneti NdFeB sinterizzati, sommato alla superiorità in termini di proprietà intellettuale e conoscenza delle terre rare, garantisce a Pechino il pieno controllo sia sulla lavorazione dei materiali che sulle loro applicazioni.

Gli impatti ambientali

Il primo storico deposito di Ree, attualmente ancora in esercizio, è quello di Bayan Obo, a nord di Baotou, nella Mongolia Interna.

«Questo sito ha consentito alla Cina di acquisire progressivamente il controllo della catena del valore a livello mondiale, eliminando i concorrenti grazie a pratiche commerciali che violavano apertamente le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto)» – ha sottolineato Brussato – «oggi Pechino sta progressivamente mettendo in secondo piano l’estrazione mineraria e la raffinazione delle terre rare poiché queste materie prime (concentrati e ossidi) non hanno applicazioni ad alto valore aggiunto. Da tempo il Dragone preferisce coltivare la produzione di risorse al di fuori dei suoi confini: un esempio in questo senso è il Myanmar, che fornisce oltre il 40% dei fabbisogni cinesi di terre rare. In questo modo la superpotenza asiatica persegue due obiettivi fondamentali: delocalizzare le problematiche ambientali e preservare le risorse nazionali».

Attualmente, esistono anche depositi di grandi dimensioni non ancora sfruttati: è il caso di quello di Jongju, nella Corea del Nord, a circa 150 km dalla capitale Pyongyang. Come ha segnalato Brussato, la valutazione iniziale ha indicato un potenziale di oltre 210 milioni di tonnellate di ossidi di terre rare, più del doppio delle riserve stimate dall’agenzia scientifica americana USGS.

«All’origine del dominio cinese sul mercato delle terre rare» – ha dichiarato Brussato – «c’è il fatto che è sul territorio cinese che si svolgono i processi, estremamente tossici e pericolosi, necessari ad estrarre il prodotto dal minerale e raffinarlo in forma utilizzabile. Se consideriamo ad esempio il cerio, vediamo che il materiale viene estratto frantumando miscele minerali in scala industriale, e sciogliendole poi in acido solforico e acido nitrico, quindi producendo in una grande quantità di rifiuti velenosi. Il governo cinese ha scientemente scelto di devastare gli ecosistemi di una parte del Paese per poter produrre a prezzi competitivi e mettere fuori mercato i potenziali concorrenti. Ricordiamo come a mettere in crisi la società mineraria americana Molycorp Minerals, che coltivava lo storico deposito Mountain Pass in Nevada, furono anche la zavorra di costi ambientali che contribuirono a portarla fuori mercato prima, e al fallimento poi».

A Baotou, nella Mongolia Interna, dove è nata l’industria cinese delle terre rare, sono stati effettuati studi che hanno dimostrato gli impatti sulla popolazione locale dell’inquinamento da metalli pesanti delle acque sotterranee. Gli elevati accumuli di elementi tossici e radioattivi effettivamente riscontrati nei campioni di suolo e tessuti vegetali provenienti dai raccolti delle locali aziende agricole hanno contaminato la catena alimentare e messo in pericolo la salute degli abitanti.

Estrazione illegale

«Il mercato nero è stata un’altra piaga nell’attività estrattiva cinese che ha devastato ampie zone della provincia dello Jiangxi, dove minatori artigianali iniettavano tonnellate di solfato di ammonio, cloruro di ammonio e altri prodotti di sintesi per separare i metalli delle terre rare dal terreno circostante» – ha spiegato Brussato – «a valle della miniera di Zudong, dove veniva utilizzato il processo di lisciviazione in situ, anche dopo decenni di precipitazioni ed erosione il livello dell’azoto ammoniacale era 20 volte superiore allo standard, a conferma che i siti abbandonati inquinano ancora le acque superficiali».

Il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato di volversi impegnare nel blocco delle estrazioni di terre rare illegali e nell’attività di bonifica dei siti inquinati: «Le stime parlano di costi per oltre 5 miliardi di dollari e, soprattutto, che ci vorranno dai 50 ai 100 anni prima che l’ambiente possa riprendersi completamente – ha chiarito l’ingegnere minerario – Intanto l’estrazione illegale si è spostata nel vicino Myanmar dove gruppi ambientalisti locali affermano che l’attività mineraria è aumentata di almeno cinque volte nelle aree limitrofe a Pangwa e Chipwi con un rapido afflusso di lavoratori cinesi che approfittano dell’inerzia nei controlli del nuovo regime».

Progetti europei in cantiere

C’è poi un altro problema, quello della destinazione ultima delle Ree. Il tasso di riciclaggio delle terre rare, infatti, non raggiunge l’1%. Ad oggi la catena di approvvigionamento è ancora lineare, sottoposta all’iter estrazione-utilizzo-smaltimento.

Tuttavia, sono stati avviati dei programmi per capire come risolvere il problema. GloReia è un progetto nato a Bruxelles nel 2018, grazie alla collaborazione tra 40 società minerarie, produttori di magneti, fornitori automobilistici, ong, università e istituzioni europee, per condividere conoscenze, sviluppare un know-how comune per lo sviluppo di un’industria delle terre rare e un’economia circolare sostenibili. Da questa idea, due anni dopo se ne è sviluppata un’altra, che ha portato alla creazione di Reia (Rare Earth Industry Association), associazione di settore che riunisce produttori e competenze accademiche europee insieme ad associazioni nazionali cinesi, giapponesi e statunitensi per sviluppare una catena del valore trasparente, sostenibile e integrata per questi minerali

Parallelamente, a fine settembre dello scorso anno, il vicepresidente della Commissione europea per le relazioni interistituzionali Maroš Šefčovič e il commissario europeo per il mercato interno Thierry Breton hanno lanciato l’Alleanza europea per le materie prime «per collegare attori industriali, Stati membri e società civile per costruire resilienza e autonomia strategica per la catena del valore – all’estrazione mineraria al recupero dei rifiuti – delle terre rare e dei magneti in Europa», si legge in una nota della Commissione europea.

«L’Alleanza europea per le materie prime è un passo importante nel rafforzamento degli ecosistemi industriali che dipendono dalle materie prime» – ha ricordato in quell’occasione Breton – «accelererà la transizione verde e digitale rafforzando le catene del valore, diversificando le forniture e coinvolgendo tutti i partner disponibili nell’attuazione delle azioni necessarie. Invitiamo tutte le parti interessate, le organizzazioni della società civile, i ricercatori, le aziende grandi e piccole, gli Stati membri e le regioni, ad aiutarci a raggiungere questi obiettivi». 

Inoltre, ricercatori dell’università Ludwig Maximilian di Monaco hanno scoperto che è possibile estrarre alcune delle 15 lantanoidi (insieme a scandio e ittrio costituiscono le terre rare) attraverso un enzima batterico, il pirrolochinolina chinone (Pqq) che, legandosi selettivamente ad esse, può essere sfruttato per separarle dalle miscele presenti nei metalli. In questo modo verrebbero aboliti i processi di lavorazione altamente nocivi per l’ambiente, e dunque le terre rare potrebbero essere estratte dalle miscele in cui sono immerse senza ricorrere all’uso di solventi ecologicamente insostenibili.

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